Da mesi si aggira sulla scena politica con un sorriso un po’ ebete ed un po’ citrullo, come quello di un bambino catapultato all’improvviso tra i mille incantesimi di Disneyland.
Si affanna a portare il suo faccione gaudente in ogni salotto televisivo consapevole che prima o poi ritornerà nell’anonimato e più nessuno avrà interesse e voglia di intervistarlo.
Eppure nessuno potrà mai disconoscere il record di cui lui può sicuramente essere orgoglioso: quello di essere riuscito, in meno di 30 mesi, a far precipitare il M5S da prima forza politica alle elezioni 2018 con il 33%, a quarto e forse quinto partito grazie ad una serie inarrestabile di crolli verticali.
È palese che il personaggio in esame non può essere altri che l’inetto guaglione di Pomigliano d’Arco, il maldestro ma tronfio Luigi Di Maio.
Proprio quel Di Maio che in queste ore, commentando la nuova randellata sui denti subita dal M5S in Umbria non sa fare altro che darne la colpa all’accrocco messo su, in fretta e furia, con il PD, ignorando che il M5S, sotto la sua sapiente guida politica, ha collezionati nei mesi, uno dopo l’altro, sonori ceffoni in ogni tornata elettorale sia amministrativa che europea.
Tra l’altro fino ad ieri l’accrocco con il PD non esisteva neppure!
È umanamente comprensibile che lo sprovveduto di Pomigliano non lo ammetterà mai, ma il risultato umbro conferma che la vera sciagura del M5S è proprio la sua arrogante pretesa di guidare i pentastellati.
Ci vorrebbe tempo e voglia per descrivere in un compendio la sequela non stop di cantonate che Di Maio ha prese dal 4 marzo 2018 in poi, a cominciare dal penoso corteggiamento a Salvini per dar vita al governo gialloverde in attesa che Berlusconi concedesse il suo beneplacito.
E che dire, poi, della abiura ai principi fondativi del M5S pur di assecondare sempre le pretese leghiste ?
Come non ricordare, ad esempio, che il capo politico ha imposto ai parlamentari pentastellati il voto a favore della “non autorizzazione a procedere” nei confronti di Salvini per il caso Diciotti ?
Eppure la negazione della immunità parlamentare era stato uno dei cavalli di battaglia proposti da Alessandro Di Battista nel tour elettorale che lo aveva portato, con camper e famiglia al seguito, ad attraversare il Paese in lungo e largo per illustrare a milioni di cittadini il programma del M5S.
Quanti degli 11 milioni di voti ottenuti dal M5S il 4 marzo 2018 sono germogliati proprio in quelle piazze?
Invece Di Maio, appagata ormai la sua ambizione ministeriale, ha ritenuto di non dover proseguire con iniziative sul campo che mantengano il filo diretto con milioni di cittadini, e le ha sostituite da un lato con la comica della piattaforma Rousseau, dove i contatti si riducono a poche decine di militanti, e dall’altro con il suo continuo esibirsi nei talk show televisivi.
Una cantonata che ha concesso a Salvini, assenteista cronico del Viminale, di volteggiare per mesi in tutta Italia, con aerei dello Stato a spese dei contribuenti, organizzando centinaia di comizi e coinvolgendo milioni di cittadini.
Una strategia che si sta dimostrando vincente così come era stato vincente nel 2018 il tour con camper di Di Battista.
A questo punto non resta che domandarsi che ne sarà del M5S.
Nella indifferenza di Grillo, che dimostra di non avere più interesse nel giocattolo pentastellato, e di Davide Casaleggio, che vive il movimento solo con interesse utilitaristico, la palla, salvo imprevedibili stravolgimenti, resterà nelle mani di Di Maio che, ottusamente saccente e tronfio, alle prossime elezioni politiche finirà per essere il becchino del M5S.