Sia il titolo originale “Just Mercy ” sia il titolo italiano “Il diritto di opporsi” custodiscono l’essenza del film di Destin Daniel Cretton. Infatti, mentre il “dovere” indica un obbligo morale, talvolta, un’imposizione, il diritto è la libertà attribuita ad un uomo, la libertà di scegliere.
Il film, uscito nelle sale italiane nell’ultimo mese, riporta a galla temi che, forse, forzatamente sono stati tenuti nel fondo: come il clima di odio razziale di cui è teatro endemico un paese che solo apparentemente ha consacrato la libertà in una statua, simbolo del mondo intero e che solo timidamente, con l’elezione di Obama ha voluto emulare i grandi leader carismatici del passato.
Allo stesso tempo, il perdurare di una pena che toglie la vita fa apparire l’America un paese fortemente contraddittorio: la fiaccola che tiene viva la libertà è la stessa di Caronte che accompagna le anime nell’oltretomba. Il buio oltre la siepe che si concretizza nella ingiusta detenzione.
Eppure e’ di pochi giorni fa l’affermazione del ministro Bonafede, in un noto talk televisivo che gli innocenti non vanno in carcere. Ebbene posso rispondergli parlando di altro.
Obama ha avuto paura di essere considerato non solo un Presidente afroamericano ma il Presidente degli afroamericani e quindi ha adottato una sorta di strategia di normalizzazione che passa nel neutralizzare il problema semplicemente non parlandone.
Negli otto anni del suo mandato, lui non ha mai detto esplicitamente che questo problema continua ad esistere negli Stati Uniti.
È tornato sommessamente a dirlo, in qualche modo ,negli ultimi anni dopo gli innumerevoli casi di cronaca che evidenziarono lo stillicidio di giovani neri uccisi dalle Forze dell’Ordine.
Ricordo che ne parló a Selma, in occasione dell’anniversario della famosa marcia di Martin Luther King, sostenendo che: «Quella marcia non è finita, bisogna proseguire e continuare il lavoro».
Ma eravamo già agli sgoccioli della sua amministrazione.
In qualche modo Obama ha salutato l’idea che la sua elezione potesse davvero rappresentare gli inizi di un’età post razziale e questo semplice fatto ha in qualche modo cancellato queste nozioni dal dibattito pubblico.
Gli intellettuali americani lamentarono a lungo la dismissione del parlare esplicitamente di discriminazioni.
E dunque oggi come allora.
Bianchi contro neri e neri contro bianchi.
Cinquanta anni fa, gli Stati Uniti erano la culla della segregazione razziale.
I “colored” avevano posti riservati sui bus, bagni separati dai bianchi e scuole per conto proprio.
Solo Martin Luther King o Malcolm X riuscirono a formare vere e proprie manifestazioni di massa e forme di disobbedienza civile che poi furono portate avanti dalla popolazione afroamericana.
Eppure è di questi ultimi giorni la notizia ,appresa sul periodico report di Nessuno Tocchi Caino, di altre iniezioni letali in Georgia e in Texas.
O di colpi alla nuca in Bielorussia.
E impiccagioni in Iraq ed Egitto.
L’ agonia riprende la scena .
Mi torna alla mente la poesia Invictus, che fu scritta proprio sul letto di un ospedale.
La poesia poi fu usata da Nelson Mandela per alleviare gli anni della sua prigionia durante l’apartheid.
Per questo fu citata nel film Invictus. (L’invincibile, del 2009, diretto da Clint Eastwood con Morgan Freeman e Matt Damon).
L’ultimo verso venne ,successivamente, citato da Oscar Wilde nell’epistola De Profundis del 1897, scritta durante la prigionia nel carcere di Reading, in seguito alla condanna per omosessualità.
Il testo, nel ripercorrere la storia della relazione con il giovane Lord Alfred Douglas, riporta la frase: “I was no longer captain of my soul”.
Gli ultimi versi della poesia furono usati da Timothy McVeigh come ultimo messaggio prima dell’esecuzione capitale.
Walter Mcmillan, protagonista di una storia vera, invece, da uomo innocente come loro, per mitigare la sofferenza chiude gli occhi e rivede i pini ballare nel vento.