Sono passati quattro secoli dalla nascita di Blaise Pascal, il 19 giugno del 1623, e  risulta essere ancora uno dei filosofi più studiati nell'ambito del pensiero occidentale. Pascal oltre ad essere un filosofo  è conosciuto come  scienziato, come matematico e, come teologo.

Fu un pensatore dalle doti eccezionali, un vero e proprio prodigio; un grande uomo di scienza che alla tenera età di  12 anni manifestò il suo genio per la matematica e per la geometria. Fu ammesso da enfant prodige nei consessi di scienziati. Studiò il vuoto nella fisica, fu precursore dell’informatica e a poco più di vent’anni inventò la prima calcolatrice, la pascalina. Fece scoperte e fondò teoremi ancora vigenti; ma a ventiquattro anni aveva capito di non avere molto tempo da vivere e si dedicò a Dio e alla scommessa sulla fede.

La matematica, diceva, è il più alto esercizio dell’intelligenza, ma il più inutile. Per una particolare protezione di Dio, scrive sua sorella Gilberte Périer nella biografia dedicata al fratello, “era stato preservato da tutti i vizi della giovinezza”. Considerava la malattia “lo stato naturale dei cristiani”. Deplorava la curiosità, “la malattia principale dell’uomo”, riteneva che tutti i guai nascessero dal non volersene stare in casa; detestava la pittura e la commedia, non tollerava chi elogiava cibi e pietanze in sua presenza, lo riteneva un segno deprecabile di sensualità. Da lei apprendiamo pure en passant, della sua impresa di carrozze, i famosi omnibus.

In filosofia non scrisse teorie e trattati ma pensieri sparsi (“burlarsi della filosofia è veramente filosofare”) che erano in realtà un’apologia del cristianesimo. Sui temi teologici pubblicò con pseudonimo le brillanti Lettere provinciali, di grande successo editoriale, che gli furono attribuite solo post mortem. Pascal fu l’antiCartesio che, a suo dire, aveva reso irrilevante Dio, ridotto a colui che aveva dato solo quel “colpetto per mettere in moto il mondo” e poi si era reso superfluo, lasciando il mondo al cogito cartesiano.

Allo esprit de géométrie cartesiano, lui – gran genio della geometria – oppose l’esprit de finesse, lo spirito intuitivo fondato sulle ragioni del cuore; perciò fu considerato precursore del romanticismo. L’uomo per lui è spirito, dunque genio e creatività, ma è anche automa, nel senso che vive di abitudini, di meccaniche ripetizioni; la forza della consuetudine riguarda pure la fede. Fu il primo critico ante litteram dell’edonismo moderno, vide nel divertimento la prima forma di alienazione, distrazione e perdizione per non affrontare le verità della vita, della morte, di Dio e del mondo. L’io va odiato, diceva, è ingiusto in sé, in quanto si fa il centro di tutto ed è incomodo agli altri, in quanto li vuole asservire.

Ebbe i gesuiti come avversari e gli atei come nemici (fra cui gli ebrei, considerati da lui “irriducibili nemici di Dio” e deicidi). Sui gesuiti diceva che “hanno voluto congiungere Dio al mondo e hanno guadagnato solo il disprezzo di Dio e quello del mondo”. C’è chi crede per superstizione ma c’è pure chi non crede per libertinaggio. Nella vita fu un conservatore: ubbidite all’autorità, diceva, rispettate le gerarchie, inchinatevi e toglietevi il cappello. Detestava le rivolte e le guerre civili – “il peggiore dei mali” – l’ordine sociale andava per lui preservato, santificava la rassegnazione. Considerava la vita come un sacrificio, riteneva abominevoli i piaceri, aveva orrore della natura, esortava ad abbandonare i vizi e l’amore per la terra e affidarsi a Gesù Cristo, in cui è dolce anche la morte.

Un ingegno così vivace, uno spirito così geniale, aveva un cupo senso religioso, di matrice giansenista. Pascal, diceva M. F. Sciacca, non vede Cristo risorto, glorioso e trionfante ma afflitto, crocifisso; l’uomo per lui è solo creatura caduta nel peccato. Per Pascal la religione cristiana era l’unica che avesse raggiunto un equilibrio tra esteriorità e interiorità: “eleva la gente del popolo all’interiorità, e sottomette i superbi all’esteriorità”. Va ritrovato un equilibrio tra fede e ragione, salvando il misterioso e il soprannaturale ma senza cadere nell’assurdo e nel ridicolo. L’uomo è una corda tesa tra il tutto e il nulla, tra l’angelo e la bestia, la miseria e la grandezza. Fragile come una canna ma pensante. Nietzsche, che pure fu l’antitesi di un cristiano e del suo tetro dolorismo, era entusiasta di Pascal e della sua “grazia malinconica”: il suo colloquio con Gesù, diceva, “è più bello di qualsiasi cosa del Nuovo Testamento”. Detto dall’autore dell’Anticristo…

Tra le sue scoperte scientifiche, matematiche e geometriche e le sue riflessioni morali, filosofiche e religiose, c’è un’eredità di Pascal che è forse l’unica argomentazione insuperata in favore di Dio. E’ la scommessa su Dio, fondata sul “calcolo” scientifico e utilitaristico. Pascal dice che abbiamo due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da giocarvi, la fede e la volontà. Soppesando perdita e guadagno, meglio scommettere su Dio anziché sul nulla, perché “se vincete, vincete tutto; se perdete, non perdete nulla”. Ovvero se Dio esiste guadagni la beatitudine eterna, se Dio non esiste, non hai perso nulla; o se vogliamo, perdi solo qualche piacere della vita che hai sacrificato alla virtù della fede. Si potrebbe dire con una formula giuridica modificata: In dubio pro deo, nel dubbio scommetto su Dio. Una versione più scettica della scommessa pascaliana fu proposta più di recente da Giuseppe Prezzolini quando scrisse, ormai vicino ai 90 anni, Dio è un rischio.

La scommessa di Pascal è coerente non solo sul piano teologico e filosofico ma anche scientifico e matematico: non saprò mai con certezza dell’esistenza di Dio, nessuna scienza lo confuterà o lo dimostrerà, è un Mistero; dunque non resta che scommettere. Un atto libero e audace dell’intelligenza, che sembra contraddire la visione giansenista della fede come grazia e dono di Dio. Così fu Pascal, il genio matematico con l’intuizione divina e il cuore che guida la ragione. La modernità seguì Cartesio, ma forse aveva ragione Pascal col suo cuore pensante…