Nel panorama della criminologia moderna, l’immagine della serial killer donna è ancora oggi sottovalutata, deformata da stereotipi culturali. Si tende ad attribuire alla donna un ruolo passivo, complice, secondario. Eppure, esistono figure che ribaltano completamente questo schema.
Una di queste è Joanna Dennehy, assassina inglese che nel 2013 compì una serie di omicidi feroci con l’aiuto di due uomini totalmente sottomessi.
Ma Dennehy non è un caso isolato. A ben vedere, l’Italia stessa potrebbe aver conosciuto un profilo simile: "Milly, figura controversa, più volte segnalata come soggetto disturbato, e coinvolta indirettamente o direttamente nei casi di Katy Skerl e José Garramón.
Nel caso Garramon Accetti la indica come una donna tedesca, di cui però non ha mai fatto il nome completo: l'appella solo Ulrike, ma probabilmente è un nome di fantasia.

La dinamica invertita: donne dominanti, uomini devoti
Il caso Dennehy è emblematico. In soli dieci giorni, Joanna accoltellò tre uomini a sangue freddo e ne ferì due, scelti a caso per strada. Il suo scopo non era economico, né vendicativo. Era psicologico e, in parte, sessuale. Uccideva per provare piacere. “Volevo vedere se ero fredda... poi mi è piaciuto,” dichiarò durante l’interrogatorio. I due uomini che la accompagnavano, Gary Stretch e Leslie Layton, non partecipavano agli omicidi: guardavano, trasportavano i corpi, compravano benzina per bruciare prove. Erano totalmente succubi della sua personalità: lei dominava, loro eseguivano. Nessuno di loro uccise mai direttamente.
Lo stesso schema si ripresenta con altri nomi nella storia criminale: Martha Beck, negli anni ’40, incantava uomini con annunci sentimentali per poi eliminarli. Il suo partner, Raymond Fernandez, era talmente soggiogato da diventare esecutore materiale solo per compiacerla. Più recentemente, casi come Karla Homolka o Debra Brown mostrano come la donna, pur senza forza fisica superiore, possa esercitare una violenza devastante attraverso il dominio psicologico e il disprezzo delle vite altrui.

Milly: un nome che torna
In Italia, Milly è un nome che aleggia tra più fascicoli investigativi. È stata più volte descritta come una donna fisicamente imponente, con arti muscolosi, grande forza e un comportamento instabile, contraddittorio, manipolatorio. La sua figura è stata associata anche al caso Garramon, dove avrebbe avuto un ruolo non secondario, e al più oscuro e ancora oggi irrisolto omicidio della studentessa Katy Skerl, ritrovata morta nel 1984 nei campi di Grottaferrata.

Nonostante il silenzio processuale, sono molte le fonti che indicano come Milly fosse a conoscenza dei luoghi, dei dettagli, delle dinamiche degli eventi in modo sospetto.
Si dice che fosse collegata a Marco Accetti, l’uomo che ha confessato di aver fatto sparire la bara di Katy Skerl nel 2005, anno in cui – guarda caso – sparisce realmente la salma dal cimitero. Un dato inquietante: i capelli trovati sul corpo di Katy erano forse compatibili con il DNA di Milly? Se tutto ciò venisse confermato, non sarebbe solo coinvolta, ma potrebbe essere la vera esecutrice materiale dell’omicidio.

Il ruolo di Marco Accetti: aiutante, feticista o spettatore?
Se si accetta l’ipotesi che Milly sia la mano esecutrice del delitto Skerl, e potenzialmente degli altri due omicidi sospetti, si apre un interrogativo: quale fu il ruolo di Marco Accetti? Le sue dichiarazioni nel corso degli anni sono state ambigue, mutevoli, spesso autoreferenziali. Eppure, è proprio lui ad annunciare pubblicamente che la tomba di Katy è vuota. È lui a offrire indizi sulla rete e sulla dinamica. È lui a non dare mai una vera risposta, ma a sostenere la narrazione. È plausibile pensare che Accetti, da sempre amante delle luci della ribalta, possa essere stato un feticista della morte, un voyeur del crimine, un aiutante passivo — proprio come i complici della Dennehy: non assassino, ma parte attiva del post-delitto, uno che sapeva, ma taceva.

La telefonata a casa Morini: una voce femminile
Un dettaglio ancora poco discusso ma centrale nella ricostruzione dell’omicidio Skerl riguarda la misteriosa telefonata ricevuta dalla madre di Katy, la signora Morini.
La voce, secondo alcune ricostruzioni, era femminile, e il contenuto lasciava intendere una conoscenza profonda della ragazza e del luogo dove sarebbe stata ritrovata.
Se davvero Milly ha fatto quella telefonata, come alcuni indizi suggeriscono, ciò corrisponderebbe esattamente al comportamento di una killer sadica, dominante, desiderosa di controllare non solo la morte, ma anche il dolore che ne consegue.
Non basta uccidere. Serve farlo sapere.

Una figura archetipica: la donna che uccide, l’uomo che guarda
Joanna Dennehy, Martha Beck, Karla Faye Tucker, Milly: in ognuna di queste figure si delinea un archetipo moderno e disturbante. La donna è l’elemento attivo, sadico, dominante. L’uomo è l’occhio che osserva, l’orecchio che ascolta, le mani che aiutano, ma che non colpiscono mai per primi. Sono casi in cui il crimine non è solo violenza fisica, ma una struttura psicologica di potere. La vittima non è solo chi muore, ma anche chi rimane a guardare.

Il profilo psicologico di Milly: sadismo, dominazione e compulsione narrativa
Se dovessimo delineare un profilo psicologico di “Milly” ci troveremmo di fronte a un caso di personalità pericolosamente deviante, con caratteristiche tipiche dei disturbi antisociali e sadici di personalità, ma anche una spiccata tendenza alla manipolazione narrativa del proprio vissuto e dei fatti.

Una donna di potere fisico e mentale
Milly è descritta da diverse testimonianze come una donna robusta, bassa, con braccia e gambe muscolose, tale da poter infliggere soffocamento, percosse o strangolamenti senza bisogno di strumenti. Il dato fisico, raramente rilevante nei delitti, qui assume un ruolo chiave: la forza corporea è parte della sua identità, non accessoria, ma integrata nella modalità di uccidere. In un’epoca in cui il crimine femminile viene ancora associato all’avvelenamento o alla manipolazione emotiva, Milly sovverte il paradigma: colpisce con brutalità, direttamente, frontalmente.
Ma il vero potere non è nei muscoli. È nella mente, nel dominio totale che esercita su chi le ruota intorno, soprattutto uomini.

Una mente ossessiva e manipolativa
Secondo il modello DSM-5, Milly mostrerebbe tratti compatibili con:
- Disturbo antisociale di personalità, con marcata indifferenza verso la sofferenza altrui
- Assenza di empatia o rimorso
- Storicizzazione delle menzogne come verità alternative
- Disturbo di personalità sadico, con tratti di eccitazione nel dominare, umiliare o spaventare altri
- Piacere nell’osservare la paura (es. la vittima prima di morire)
- Controllo simbolico post-mortem (es. telefonata a casa Morini, rimozione della bara)

Inoltre, Milly sembrerebbe affetta da una forma di compulsione narrativa: ripete versioni diverse dei fatti (come nel caso Calamone), spesso cambiando dettagli chiave, creando confusione deliberata. Questo comportamento non è segno di confusione, bensì di delirio narcisistico da controllo della verità: se nessuno può più sapere come sono andate le cose, allora tutto è nelle sue mani.

Il bisogno di un pubblico
A differenza di serial killer silenziosi o ritirati, Milly appare dipendente da un pubblico, anche se indiretto. Ha bisogno che qualcuno la ascolti, la segua, la creda. E se ciò non accade, manipola, si reinventa. Ecco perché la presenza di uomini “devoti” come Accetti si incastra perfettamente nel suo schema: non cerca amanti, ma spettatori. Non cerca compagni, ma complici passivi.

La rimozione del corpo come cancellazione della colpa
Nel 2005, la bara di Katy Skerl sparisce dal cimitero. Questo evento, inquietante quanto simbolico, è forse il momento più rivelatore del controllo di Milly. La rimozione della bara non è un atto gratuito: è il tentativo di cancellare la prova, di recidere il legame tra colpa e memoria, ma è anche una dichiarazione di potere. Far sparire un corpo è, per una mente sadica, un modo per dire: “Io decido cosa resta e cosa no”.

Non è un caso se il gesto avviene dopo vent'anni, in un momento in cui il DNA e le tecnologie forensi potrebbero finalmente parlare. E non è un caso che proprio Accetti ne parli, ne dia notizia, ne faccia “teatro”.

L’archetipo Milly
Milly è l’ombra perfetta. Non si nasconde: gioca con l’evidenza, la manipola, la riordina. È una figura psicologicamente dominante, che uccide non solo per eliminare, ma per esercitare potere assoluto sulla narrazione del delitto stesso. Attorno a lei, uomini silenziosi: testimoni che non parlano, complici che non ricordano, spettatori che fingono di non sapere.
In una società che ancora fatica ad accettare il profilo della donna violenta per dominio e per sadismo, Milly è la prova più disturbante: uccide perché può, perché vuole, perché nessuno crederà mai che l’ha fatto lei.