IDOS: la crisi climatica è già un'emergenza umanitaria e continuerà a costringere alla fuga milioni di persone
Mercoledì scorso i primi sedici migranti che, loro malgrado, stanno sperimentando le procedure accelerate di frontiera in un Paese terzo, come previsto dal protocollo Italia-Albania in materia di migrazione, sono arrivati presso l'hotspot di Schengjin, a bordo di una nave militare italiana, per essere poi trasferiti a Gjader.
Tra loro, i più fortunati avranno la possibilità di accedere al centro di prima accoglienza per presentare domanda d'asilo, mentre per i meno fortunati si apriranno le porte del Cpr, il centro di permanenza per il rimpatrio.
I migranti, tutti maschi e identificati come adulti, non vulnerabili e provenienti da Paesi “sicuri” (nel caso specifico Egitto e Bangladesh), hanno già messo in luce le criticità delle nuove procedure. Infatti, quattro di loro sono stati trasferiti in Italia poche ore dopo l'arrivo: due perché minorenni, due perché con problemi di salute, quindi vulnerabili, evidenziando così le lacune del sistema di valutazione sommaria delle condizioni dei migranti.
Ciò mostra ancora una volta, come annunciato da tempo dalle organizzazioni che si occupano dei diritti umani, che questo protocollo, sebbene rivendicato come un successo dal governo Meloni, produce effetti dannosi sul piano umanitario, politico ed economico. Ciò rende ancora più urgente superare un approccio burocratico alle vulnerabilità, che esclude tutti coloro che non rientrano nei parametri discutibili stabiliti dal governo italiano e albanese.
La stessa lista dei cosiddetti “Paesi d'origine sicuri” redatta dal governo italiano, per cui richiedenti asilo è prevista una procedura accelerata già preorientata al diniego e che non consente di valutare adeguatamente la sussistenza di ragioni gravi per l'asilo, è oggetto di controversia: tra di essi, infatti, figurano l'Egitto, nonostante le segnalazioni di violazioni dei diritti umani, limitazioni delle libertà e altre pratiche repressive che vi vengono perpetrate, e il Bangladesh, Paese di origine di dieci dei migranti trasferiti in Albania, del quale non viene adeguatamente considerata la vulnerabilità ambientale dovuta ai cambiamenti climatici.
Ben circa 1,8 milioni di bangladesi sono stati costretti a migrare internamente a causa di eventi meteorologici estremi solo nel 2023, posizionando così il Paese tra i cinque con più sfollamenti interni a causa del clima, divenuto per loro una vera e propria minaccia esistenziale.
L'intreccio tra crisi ambientali e conflitti è sempre più stretto nel contesto globale: secondo il Global Report on Internal Displacement (GRID 2024), nel 2023 i disastri naturali hanno causato circa 26,4 milioni di spostamenti forzati entro i confini nazionali. Inoltre, tra i 45 Paesi che hanno conosciuto sfollamenti dovuti a conflitti, tutti, tranne tre, hanno registrato migrazioni causate anche da disastri naturali, a dimostrazione che chi fugge ha una biografia in cui si sovrappongono sempre più violentemente guerre e sconvolgimenti ambientali.
“Oggi più che mai i fattori climatico-ambientali dovrebbero avere un ruolo determinante nella valutazione della vulnerabilità di chi cerca protezione, così come nella valutazione dei governi dei cosiddetti Paesi di origine “sicuri”. Una valutazione che non può non tener conto del nesso tra povertà cronica, debiti, violazione dei diritti umani e conflitti connessi alla crisi climatica”, afferma Laura Greco di A Sud.
La crisi climatica è già un'emergenza umanitaria e continuerà a costringere alla fuga milioni di persone. Attualmente, oltre il 40% della popolazione mondiale – circa tre miliardi e mezzo di persone – vive in contesti di estrema vulnerabilità agli shock climatici. Le previsioni future sono allarmanti: si stima che tra 250 milioni fino a 1 miliardo di persone saranno costrette a spostarsi, sia all'interno dei loro Paesi sia oltre i confini nazionali, a causa degli eventi climatici estremi.
È in questo scenario che “i governi hanno il dovere di prendere atto che la mobilità umana forzata è strettamente legata alla crisi climatica che stiamo alimentando. Così come deve essere un diritto riconosciuto chiedere protezione anche a causa di fattori climatico-ambientali, nella prospettiva di arrivare al riconoscimento dello status di rifugiato climatico a livello internazionale”, dichiara Luca Di Sciullo, presidente di IDOS.
L'assenza dei rischi associati a fattori climatico-ambientali nella valutazione della vulnerabilità di chi cerca protezione fuori dal proprio Stato, in un apparato di gestione delle migrazioni che, anche alla luce del nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, tende a restringere l'accesso all'asilo è uno dei temi analizzati nel Dossier Statistico Immigrazione 2024. Un lavoro corale curato dal Centro Studi e Ricerche IDOS, al quale ha partecipato anche l'Associazione A Sud, con il contributo di Maria Marano (che ha curato i tre Report di A Sud su “Crisi ambientale e migrazioni forzate”, disponibili online), che è stato presentato lo scorso 29 ottobre a Roma.
Fonte: Centro Studi Ricerche IDOS