Sappiamo che l’avete già letta e sentita, questa storia della Dalia Nera. Dopo un timido tentativo di rispolverare quest’orrido caso in un episodio del poliziesco televisivo “Hunter” negli anni novanta, uscì anche un film nel 2006, “Black Dahlia”, con le star del momento, da Scarlett Johansson a Hilary Swank, diretto da Brian De Palma, definito dagli esperti un allievo di Hitchcock, che a noi pare ben lontano dal maestro. Il web ha poi dilatato all’infinito le ipotesi su quanto accaduto, ma noi vi stupiremo.

Elizabeth Ann Short ha una svelta biografia, prima del dramma, sintetizzabile nella storia di una girl statunitense irrequieta ed erratica, spesso descritta nelle pellicole di allora e di poi. Si tratta di uno stile di vita non del tutto abbandonato colà, dove ci si sposta dal Maine al Colorado, dal Kentucky alla California, cosicché, a volte, di una famiglia di venti persone, è già molto se due si ritrovano vivere almeno in un raggio di cento chilometri.

Così fu anche per lei, stando ai racconti. La giovane, nata nel 1924, era bella e ribelle, non trovava pace, forse pensando a quel papà ( di lei e altri quattro) che, dopo la crisi del 1929, se l’era data  a gambe dal Massachusetts, facendosi credere morto. Ovviamente la madre non riuscì a tener dietro a tutti e questa figliola, dalle scure chiome e gli occhi color acqua azzurra acqua chiara, le sfuggì di mano.

Si è accennato al suo problema d’asma, che l’avrebbe condotta a cercare il sole della Florida e infine della California, anche se ipotizziamo che nel Golden State lei avesse soprattutto cercato di ritrovare papà Cleo, che infatti viveva a San Francisco: egli la ospiterà per un brevissimo periodo, durante il quale i due realizzarono che era meglio smettere di vedersi per sempre.

Ciò che non è stato mai chiarito è un particolare trattato in modo volatile e ambiguo, ovvero un suo presunto difetto ai genitali, che le avrebbe impedito di accedere a rapporti sessuali “classici”. Poiché l’accenno arriva dal velenoso scrittore e cineasta ( oggi 93enne, occultista, che ha bazzicato l’Italia per eccentriche pratiche), Kenneth Anger, autore del cult “Hollywood Babilonia” ( suo unico successo), esso va preso con le molle, anche perché in contrasto con tutto quello che si sa di lei.

Definita amante delle divise militari, innamorata affranta per la perdita del fidanzato in guerra, in realtà la povera ragazza, che oggi qualcuno vorrebbe elevare a icona del femminismo, conduceva un’esistenza spericolata e oscura; nulla di strano in quella Los Angeles stranita degli anni quaranta, spessa di balordi e gangster, celebrata per le impronte dei divi davanti al Chinese Teathre sull’Hollywood Boulevard che, per chi l’ha visto nel secolo scorso, era un posto deprimente e infido, ma forse Elizabeth non lo immaginava, quando iniziò a gironzolare da quelle parti; forse pensava che camminare vicino alla villa di un attore significasse già sentire l’alito del successo…o no?

Non abbiamo mai dato molto peso alla tanto decantata aspirazione al cinema della giovincella di belle speranze. Ci è sempre apparsa, piuttosto, come una creatura irrisolta ( e questo sarebbe naturale, a ventidue anni), un’incompiuta che cercava una risoluzione chissà quanto ancora lontana, al momento della morte. Risulta solo una costante, leggendo le storie su di lei: frequentava molto i locali e sfiorò nomi pericolosi, come quel “Bugsy” Siegel, morto ammazzato poco dopo nello stesso anno, esponente di un’ala mafiosa ebraica che si contaminava col cinema.

I collegamenti tra fatti e persone, che espongono ad accuse di visioni troppo fantasiose, non sono un’invenzione di oggi, ma sono deprecabili solo quando mirano alla speculazione. Nel caso della Dalia, è impossibile non accorgersi di alcuni intrecci che, se possono essere ininfluenti sulla ricerca ormai impossibile di un colpevole, pure inquadrano un’epoca e illuminano le trame di una narrazione storica.

Se ella sognò mai di fare l’attrice, ciò deve attribuirsi alla condivisione di un american dream comune a molte sue connazionali e non solo, nei tempi in cui una sua quasi coetanea, tale Norma Jean detta Marilyn, con ben altra determinazione e a prezzo della salute mentale, stava saltellando da una particina all’altra e prestandosi, come i suoi colleghi ( anche quelli considerati adamantini) a girare i porno pentasessuali per il godimento dei capi degli studios.

Torniamo dunque a quelle strade infernali, a quel clima così lapidariamente e intensamente fotografato nel brano “ L.A. Woman” dei Doors, testo di Jim Morrison. La Short si muoveva ai margini; senza sforzo, non risultando un lavoro ufficiale, si arguisce che qualche marchetta doveva aiutarla a sostenersi. Dunque, due parole per rammentare le orribili condizioni in cui fu trovato il corpo, da una signora che passeggiava con il bambino lungo una di quelle sterminate periferie losangelene, a Leimert Park, il 15 gennaio del 1947: tagliato in due, drenato del sangue, seni, cosce e pube vilipesi, viso abominevolmente deformato a mo’ di macabro sorriso, risultato di una tortura che si fa risalire al teppismo suburbano britannico. E possiamo fermarci qui.

Tra i suoi frequentatori si annoveravano alcuni medici, uno dei quali famoso abortista delle star. Ecco uno stralcio delle ricerche che abbiamo compiuto durante l’elaborazione del libro “Il mostro di Firenze, John Doe in Toscana, la storia osservata da un passante", (Carmen Gueye, Eidon Edizioni); sul perché le strade di queste due vicende si incrocino, torneremo.

"George Hodel, medico... fu posto per la prima volta sotto osservazione dalla polizia di Los Angeles nell'ottobre 1949, quando sua figlia quindicenne Tamara lo accusò di molestie. Il caso suscitò qualche sospetto di collegamento con il caso Short, tanto che le autorità decisero di porre il dottor Hodel sotto sorveglianza...per accertare la sua eventuale implicazione nel delitto...Tamara Hodel, la figlia di quindici anni, ha dichiarato che sua madre Dorothy le ha confidato che, la notte dell'omicidio, suo padre è stato fuori tutta la notte per un party e che le ha detto: "Non saranno mai capaci di provare che l'ho uccisa io". Due microfoni sono stati piazzati nella casa del sospetto. ...Rudolph Waters, che si sa abbia conosciuto sia la vittima che il sospettato, ha asserito che non ha mai visto la vittima ed Hodel assieme e che non crede alla possibilità che i due si conoscessero. Le seguenti persone, interrogate, non hanno saputo fornire nessun dato capace di collegare il sospetto alla vittima [...].Nel 2003 Steve Hodel (figlio del dottor Hodel ed ex-detective della Sezione Omicidi della Polizia di Los Angeles) ha pubblicato un libro in cui afferma che il padre, deceduto nel 1999, è il responsabile sia dell'omicidio della "Dalia Nera" sia di un ampio numero di omicidi irrisolti commessi lungo un ventennio. ... ... il detective Brian Car... ha affermato in una intervista televisiva che...se avesse portato un impianto accusatorio debole come quello di Steve Hodel al pubblico ministero, questi «mi avrebbe riso in faccia e mi avrebbe cacciato fuori dal suo ufficio». WIKI
 

Nel contesto di una sceneggiatura stile “L.A. Confidential” saltiamo a pie’ pari la tirata su tutti gli spostati e gli psicopatici tossicomani, indagati a vario titolo, usciti e prosciolti dalle indagini “fatte male”, per unanime parere. Ammesso che, a differenza di quanto sostiene Hodel Jr, la Polizia avesse invece lo scrupolo di lavorarci come si deve, ebbene: tra mitomani, sciacalli, lettere anonime e gente che denunciava i parenti più odiati, non se ne esce.

L’abominio sul corpo femminile, dunque, ci porta a pensare ancora al ”monster” fiorentino, alle teorie sataniste ( non nostre, ma di emeriti studiosi, come peraltro di cialtroni del crimine), riprese dal film di De Palma, tra orge e stravizi, in mezzo ai quali la Dalia potrebbe essersi impastoiata. Anche nel suo caso, come a Firenze, arrivò qualche rivendicazione scritta ritagliando le lettere dai giornali, ma la particolarità specifica consiste nel fatto che, laddove a Firenze la missiva conteneva un lembo del seno dell’ultima vittima, della Dalia arrivarono effetti personali: dunque, non erano semplici letteracce buttate lì a caso, come sempre avviene.

Chi la uccise dunque era in possesso delle sue cose, a parte una borsetta e una scarpa ritrovati giorni dopo in un campo ( e questo ricorda il delitto di Rabatta del 1974). L’omicidio evidentemente non avvenne in quel prato, chi operò sapeva come incidere, magistralmente, un cadavere.

Sapete chi fu sospettato (mediaticamente), a un certo punto? Addirittura Orson Welles, il genio di “Quarto Potere”, l’ex marito di Rita Hayworth, che durante la gavetta si era specializzato in trucchetti da mago, squartando manichini: a noi sembra che Orson ( morto nel 1985, ancora sposato con la terza moglie italiana) sia stato messo alla berlina solo per gli insulti che indirizzava al quel potere che col suo film veniva smascherato, ma tanto ci rappresenta quanto di cervellotico abbia inquinato le analisi di questo delitto. 

Di fatto, non si è capito bene nemmeno come sia morta la ragazza, perché il referto autoptico si mantiene sul generico. Ridicole appaiono le tesi sulla mano omicida femminile, la famosa “dottoressa lesbica”, o la rivale in amore: una donna da sola non può fisicamente reggere un simile massacro. 

L’avete capito: tra stregoni, criminali, mafiosi, serial killer, e sottobosco annesso, non si è mai venuti a capo dell’enigma della Dalia e forse nemmeno lo si è voluto.