Davvero “interessante” la notizia apparsa su Libero.it riguardo alla frase pronunciata dal Presidente della Camera Roberto Fico in Parlamento nel giorno della fiducia a Giuseppe Conte, rivolgendosi a Sgarbi: “Concluda, altrimenti le levo la parola”. La frase, infatti, per i puristi della lingua italiana potrebbe risultare suscettibile di qualche mite commento, mite perché in essa non si riscontra nessun errore, ma solo, a voler cercare il pelo nell’uovo, una mancata eleganza linguistica. A pensarla diversamente, attribuendo alla frase oscure oscenità semantiche, è il critico tuttologo Vittorio Sgarbi a cui la frase è stata rivolta e il giornalista suo omonimo e compagno d’avventura, Vittorio Feltri, che nella estenuante e tormentata campagna d’odio contro i 5 stelle e i suoi maggiori rappresentanti, raccattano tutto ciò che ad essi appartiene, fosse anche l’aria che espirano, per denigrarli gratuitamente e senza validi argomenti eccetto quelli costruiti dalle loro miserrime fantasie.

Il primo, nella rubrica Sgarbi quotidiani che tiene su il Giornale.it, commentando il testo di un lettore che dopo essersi complimentato con lui “per il magistrale intervento alla Camera di ieri, interrotto da un incredibile Concluda, altrimenti le levo la parola, del Presidente Fico…” lo ha indotto ad una tardiva quanto geniale riflessione sulla frase del Presidente della Camera e quindi a scrivere: “Questo messaggio mi ha incuriosito, per il purismo linguistico che stigmatizza la trascuratezza della scelta lessicale: non «togliere la parola» ma «levare la parola». Non ci avevo pensato. Così ho fatto una rapida verifica e, nell'autorevole dizionario Sabatini-Coletti, ho trovato questi significati al verbo «levare»: «Togliere qlcu. o qlco. da un certo posto: l. il figlio dal collegio, i vestiti dalla valigia || figg. l. (o levarsi) qlcu. o qlco. di torno, di mezzo, liberarsi di qlcu. o qlco. che provoca fastidio; anche uccidere | l. le parole di bocca a qlcu., dire esattamente le stesse cose che avrebbe detto lui». E’ proprio quest’ultima frase che deve aver illuminato l’istrionico critico tuttologo, che in un attimo ha sgombrato la sua mente da ogni possibile dubbio sul significato lessicale del termine “levare”, che gli ha fatto comprendere la gravità della frase pronunciata da Fico, il quale, del tutto ignaro delle sue carenze italianistiche non deve essersi reso conto che con la sua frase, piuttosto che invitare Sgarbi a concludere il suo discorso, stava lasciando involontariamente intendere agli altri che gli avesse tolto le parole di bocca, ovvero che, ciò che Sgarbi aveva appena finito di dire corrispondesse esattamente a quello che avrebbe voluto dire lui; concetto che il critico tuttologo nel suo articolo spiega così: “Interessante. Esattamente il contrario delle intenzioni del Fico. «Levarmi le parole di bocca»: dire le stesse cose che ho detto io. Con il verbo «levare» ha espresso l'opposto del suo pensiero.

Peccato però che, nonostante la sua grande cultura e intelligenza, Sgarbi al momento non si sia accorto di nulla e per avere “certezza” delle sue assurde fantasie lessicali sia dovuto ricorrere successivamente al dizionario Sabatini-Coletti, dando peraltro una volontaria e contraffatta interpretazione dello stesso, considerato che il significato della frase (ma questo vale per tutto ciò che si dice o scrive) deve essere sempre contestualizzato, ovvero riferito al contesto pertinente, per una corretta analisi o una migliore comprensione. Fico, infatti, non ha detto “mi leva la parola” (in questo caso avrebbe avuto ragione Sgarbi), ma “le levo la parola” che esprime ben altro significato, quello cioè che voleva dire lui e che tutti abbiamo capito chiaramente. E su questo non ci piove, il contesto infatti in cui è stata pronunciata la frase era perfetto, cosa che la rendeva del tutto comprensibile alle persone normali e di umana intelligenza.

Quando si vuole fare polemica sterile è facile farla servendosi di parole o frasi che a seconda del contesto possono esprimere significati diversi; si potrebbero fare centinaia di esempi tesi ad ingannare, a creare dubbi sul loro vero significato. Ma non tutti i lettori, purtroppo per Sgarbi, sono così impreparati o ingenui da cascarci, da non capire l’uso strumentale che può essere fatto delle parole e che egli fa di ogni quisquilia per attaccare e offendere i suoi avversari politici, o quelli che comunque non la pensano come lui. E’ ormai nota a tutti la sua farneticante ossessione a espellere logorroicamente veleno dalla bile ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, fosse anche una pulce a pestargli il piede. Lui, lo ricordo per chi non lo sapesse, è quello che - avendo forse scambiato il Parlamento per Palazzo Grazioli ai tempi in cui l’ex Cavaliere del lavoro l’aveva trasformato nel più noto bordello romano - disse di avere appoggiato la candidatura di Roberto Fico a Presidente della Camera perché patteggiava per il suo cognome al femminile. Basta questo per rendersi conto della statura di Sgarbi come uomo politico. E’ davvero difficile trovare di peggio!

Il secondo, invece, Vittorio Feltri, direttore di Libero, che nella versione on line del suo giornale pubblica la stessa notizia - credendo forse di fare uno scoop giornalistico - in prima pagina e a lettere cubitali con il titolo: “Roberto Fico umiliato da Vittorio Sgarbi: "Non sa l'italiano. Alla Camera mi ha detto che...". Roba che neanche il giornalino della Parrocchia Pontificia di San Tommaso da Villanova (con tutto il rispetto per loro) si sognerebbe di scrivere, data l’inconsistenza e l’infondatezza della notizia. Titoli così, un giornale serio se li riserva per le catastrofi nucleari e non certo per il rutto di una formica come invece fa lui. Ma non c’è da meravigliarsi, i titoli di Libero li conosciamo già, più che titoli di giornali sembrano pneumatici di camion pompati a rischio di esplosione. Pur di accaparrarsi qualche ingenuo lettore sarebbero disposti a scrivere qualsiasi ebetaggine. Se poi si tratta di scrivere contro il Movimento 5 Stelle, le ebetaggini sono disposti pure a inventarsele e a confezionarle su misura. Nell’articolo (tra l’altro non firmato) non viene detto nulla di nuovo rispetto a quello che aveva già scritto Sgarbi nella sua rubrica su Il Giornale.it, a parte alcune frasi simili riportate in grassetto per esaltarne il contenuto mendace e il fatto di dargli manforte, sostenendone la tesi allucinatoria. Peccato però che con l’ultima parola dell’articolo “Touchè” (dal francese “toccato”) hanno dimostrato per l’ennesima volta di essere loro gli ignoranti. Touché, infatti, richiede l’accento acuto e non quello grave come invece è stato scritto. Quindi, una raccomandazione al direttore Vittorio Feltri, prima di accusare gli altri di non conoscere l’italiano (tra l’altro immotivatamente) si accerti che i suoi redattori scrivano correttamente. Non si può infatti gridare “al ladro” quando il ladro ce l’abbiamo in famiglia! Peccato anche che, quando a sbagliare il congiuntivo o a commettere strafalcioni verbali sono i suoi colleghi o i suoi amici politici, i titoloni non esistono, e non esistono nemmeno i titoletti, anzi non esiste proprio la notizia (cosa che a onor del vero vale per la stampa in generale, fatta eccezione per qualcuno). Ebbene, per chi non lo ricordasse o non avesse avuto modo di assistere alla trasmissione televisa Quante storie condotta da Corrado Augias su Rai 3, ecco il fatto: Massimo Giannini, parlando - guarda caso - dei 5 Stelle, durante la puntata del 13 marzo scorso commette uno strafalcione: “E io credo che se lo diventino…” dice a un certo punto della discussione, interrotto però prontamente da Augias che lo riprende con moto istintivo, “se lo diventassero…” suggerisce. E qui, il famoso editorialista di Repubblica, più che mai imbarazzato e paonazzo (era stato uno di quelli che avevano accusato Di Maio di non conoscere il congiuntivo) cerca di salvarsi in corner, commettendo però un nuovo e più grave strafalcione, non verbale questa volta, ma di stile, dicendo: “ho parlato da Di Maio…”, credendo di fare una bella battuta. La frase, ovviamente si commenta da sé.

Quella di colpire il Movimento 5 Stelle attaccando i suoi leader sul linguaggio verbale, provando a farli passare per degli ignoranti, è storia ormai vecchia. Su Di Maio lo hanno fatto per mesi interi illudendosi di dequalificarlo agli occhi del Paese per un congiuntivo sbagliato, dimentichi però del fatto che gli italiani sono abituati a sopportare cose ben più serie e gravi da parte dei politici che l’hanno preceduto e che continuano a stare in Parlamento (sono più di cento i parlamentari condannati, imputati, indagati e prescritti che siedono tra Montecitorio e Palazzo Madama, tra cui anche Sgarbi, condannato una decina di volte per reati quali, assenteismo e produzione di documenti falsi, diffamazione aggravata, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale ecc.). Altro che un congiuntivo sbagliato! Il risultato elettorale ottenuto il 4 marzo dal M5S è la dimostrazione che qualcosa gli italiani stanno cominciando a capire. Purtroppo, quanto scritto da Sgarbi nella sua rubrica su Il Giornale e pubblicato da Feltri su Libero.it, testimonia invece che gran parte della stampa e dei politici rivali del M5S insiste ancora su questa storia non rendendosi conto che ogni volta che lo fanno lanciano un boomerang che gli ritorna addosso. Attaccare, infatti, un politico su un verbo sbagliato o su una frase venuta male, dimostra che nulla di serio si ha da contestargli e che, quindi, è solo un modo di arrabattarsi per portare a casa qualche misero risultato.

Sbagliare un verbo, incorrere in qualche errore lessicale, mostrare incertezza o non essere fluidi, esprimendosi, non significa necessariamente non conoscere la lingua; il linguaggio parlato, invero, risente molto dell’attenzione, della concentrazione, della circostanza, dell’esperienza e dell’emotività del soggetto e non rispecchia affatto quelle che sono le sue vere capacità. Sappiamo bene, come dei bravi oratori spesso risultino essere persone incapaci e inconcludenti, mentre invece, persone che non hanno abilità nell’esprimersi verbalmente, risultino essere delle grandi risorse per la società. A voler fare qualche esempio tra i tanti possibili, Alessandro Manzoni che come disse lui stesso, amava rimanere lontano da “qualsivoglia occasione di linguaggio” temendo di commettere degli errori; o il grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw, il quale rivelò di aver imparato a parlare in pubblico continuando ostinatamente a rendersi ridicolo; o, ancora meglio, al contrario (qui però rispetto ai primi voliamo basso) il nostro stesso Vittorio Sgarbi che nonostante la sua grande capacità oratoria (e per concludere uso una definizione di Andrea Scanzi tratta da un suo articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano, che ho trovata perfetta) “va bene come opinionista alla Pupa e il Secchione. O come zimbello virale quando si fa riprendere sulla tazza del cesso, nel tentativo disperato di espellere se stesso. Senza peraltro riuscirci (la stipsi è una brutta bestia)”.