Il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati commenta l'articolo di Sergio Di Benedetto in vinonuovo.it: "L'incarnazione della spiritualità è fondamentale per darle credibilità oggi.

La Chiesa verso la deriva ha bisogno della testimonianza di sacerdoti credibili. E i preti sposati potrebbero essere una grande risorsa se fossero riammessi al ministero sacerdotale pieno".

Di seguito un estratto dell'articolo:

"Al fondo delle pregevoli riflessioni di Mortola e Brambilla mi pare permanga ancora una teologia del presbitero di forte radice tridentina, su cui il Vaticano II ha, all’atto pratico, inciso poco. La citazione che Brambilla fa di PO 6 mi pare emblematica, laddove dice che «Il presbitero infatti esercita “la funzione di Cristo capo e pastore” […], dove il capo è la testa, la parte dell’organismo da cui tutto il Corpo prende vita (Col 2,19), una e unica». La parte del testo conciliare riguarda proprio quel «Cristo capo e pastore» a cui il sacerdote si conforma.Ora, ritengo che il nodo sia proprio qui, ma che, per la chiamata che lo Spirito rivolge al tempo che attraversiamo, si possa tentare di imbastire qualche spazio ulteriore di riflessione e qualche orizzonte di cambiamento. In altri termini, sono convinto che la teologia del ministero in primis debba essere riletta, riattualizzata e restituita alla radice, per poter poi fare in modo che tale teologia sia generatrice di feconda e sostenibile vita evangelica per tutti, a partire dagli stessi sacerdoti. In questa direzione, due sono, mi pare, le vie, che per ragioni di spazio vado ad accennare, augurando possano poi seguire ulteriori riflessioni.La prima riguarda l’urgenza di restituire al sacerdozio la sua dimensione di ministero, ossia di ministerium, inteso come servizio al Signore (Nm 8,11) e al popolo del Signore («I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli», LG 18). Si potrebbe così provare a superare la tradizionale equazione officium/munus/potestas, riscoprendo — secondo alcune intuizioni felice del Vaticano II ­— il valore fondativo del battesimo di tutti i fedeli (Can. 204) e ponendo così l’accento, tra le varie accezioni del termine, sul munus come dono. L’identificazione tradizionale del sacerdozio con “Cristo capo” domanda oggi un superamento, alla luce della ricerca teologica, del magistero conciliare, della rilettura dei padri, ma anche perché ‘i segni dei tempi’ — ossia la realtà che crediamo guidata dallo Spirito — oggi non sembrano confermare tale interpretazione del presbiterato, eredità di un’altra società, di altre sensibilità umane, di altre convinzioni teologiche e giuridiche. Peraltro, restituire centralità alla dimensione del servizio, inteso come dono gratuito della grazia per servire i fratelli, non inficia la presidenza eucaristica, come la splendida pericope giovannea della lavanda dei piedi richiama. Dunque, sarebbe auspicabile considerare non un sacerdote al ‘vertice’, in una dimensione essenzialmente verticale- piramidale, ma in una dimensione orizzontale-comunionale.La seconda riflessione intrinsecamente legata a ciò conduce a pensare non alla conformazione del presbiterato con Cristo capo, ma con il Dio-relazione o, meglio, con il Dio-comunione (comunione tra le persone trinitarie e con l’umanità nell’evento della morte e resurrezione di Cristo), che è l’essenza del Dio rivelato dall’evangelo. Da ciò si potrebbe far discendere, nel concreto, una visione differente della stessa comunità cristiana, il cui futuro è comunione perché rispondente alla Rivelazione.Nel concreto, ad esempio, si potrebbe pensare alla comunità cristiana (la parrocchia) non più governata dall’unica potestà presbiteriale, ma dal servizio comunionale di respiro trinitario: non più uno, ma tre persone battezzate, uomini e donne, che abbiano uffici / ministeri diversi, dove solo uno dei tre sia necessariamente un ministro ordinato — sacerdote o diacono —, responsabile del ministero ‘spirituale’, ossia del culto, dell’azione sacramentale, della cura spirituale della comunità (per usare una terminologia consolidata, il munus sacrificandi). Gli altri due ‘ambiti’ fondamentali, ossia quello organizzativo-pastorale (in qualche modo il munus docendi) e quello giuridico-economico (munus regendi) potrebbero essere affidati a figure consacrate, ma anche a figure laicali, solidamente formate, parte attiva della comunità, uomini e donne di sapienza ed equilibrio, di fede e di carità. Persone a cui andrebbe anche dato un riconoscimento economico, come oggi accade al presbitero.Ciò che conta, inoltre, non sarebbe cosa può o non può fare il singolo, in una partizione sempre un po’ statica e rigida, ma cosa può e non può fare la comunione dei fedeli, rappresentata dalla comunione delle tre figure responsabili. In tale direzione, si potrebbe parlare di azioni ministeriali più che di munera: l’azione di organizzazione, che abbia l’orizzonte del possibile (speranza), l’azione spirituale, che abbia l’orizzonte della fede, l’azione della carità, nelle numerose sue declinazioni: si tratta di categorie oggi maggiormente eloquenti (e forse più evangeliche). Allora, più che privare una comunità del sacerdote per ‘esaurimento numerico’, si tratta di donare alla comunità, su scala territoriale maggiore (per questioni anche strutturali, economiche, quantitative) una comunione che diriga e armonizzi le membra del corpo ecclesiale; essa sarebbe analoga alla Trinità e sarebbe allo stesso tempo espressione dell’intera comunità dei fedeli, con cui è indispensabile sia in continuo e intenso legame di servizio e dialogo. Ma questo fungerebbe anche da stimolo profetico per l’umanità tutta: quale icona migliore di ‘mondo buono possibile’ per un contesto lacerato e sempre più incline all’individualismo che una comunità dove fraternità e sororità siano vissute fin dal vertice?Peraltro, per stare alle diocesi di Milano a cui il volume di Brambilla e Mortola facevano riferimento, non è un caso che le comunità pastorali più ampie siano guidate da diaconie (dove diaconia è servizio) talvolta composte non solo da persone consacrate.Si tratta di aprire un cammino che possa accogliere un dialogo non specialistico, che tenga conto della ricerca teologica, della tradizione, della Scrittura, del diritto canonico, ma anche della concretezza che oggi il cristiano, sia egli sacerdote, vescovo, laico, vive quotidianamente. Per questo, che magari sia giunta l’ora di vedere la diminuzione del numero dei sacerdoti come un’occasione di grazia per una rivisitazione dello stesso sacerdozio, della grazia battesimale, della comunione? Che la necessaria attenzione a custodire l’umanità del prete non conduca a nuove forme di servizio tra tutti i battezzati?Siamo chiamati a pensare e amare e servire non un mondo ideale, ma il mondo che abitiamo oggi e che sarà abitato domani, dove ancora il kerigma possa risuonare e dare sapore alla vita. Questo, mi pare, è una responsabilità per chi crede in un Dio incarnato nella storia".