Londra brucia di indignazione per tre parole gridate sul palco del Festival di Glastonbury: «Death to the IDF». Il duo rap Bob Vylan ha intonato il coro, il pubblico ha risposto, i britanni lo hanno visto in diretta sulla BBC e in poche ore si è scatenato il rituale della gogna pubblica.

Dai quotidiani nazionali al ministro della Cultura, dal rabbino capo alle principali organizzazioni ebraiche, dalla direttrice del festival alla BBC (che trasmetteva l'evento in diretta), tutti hanno bollato quanto accaduto come un' "orgia di antisemitismo".

La sproporzione è lampante: un'intera classe dirigente riversa fiumi d'inchiostro su un coro, ma tace – o giustifica – la devastazione quotidiana di Gaza a opera dell'esercito israeliano. Lo stesso esercito che, con armi occidentali, da quasi due anni ha trasformato - e continua a farlo ! -  la Striscia in un cimitero a cielo aperto.

Non è antisemitismo accusa un esercito dei suoi crimini

Serve dire l'ovvio: invocare la morte delle IDF (Forze di Difesa Israeliane) non equivale a invocare la morte degli ebrei. Il bersaglio non è un popolo, ma un apparato militare che da decenni opprime i palestinesi e, dal 7 ottobre 2023, conduce un assedio genocida su larga scala sia su Gaza che su Gerusalemme est e la Cisgiordania. Spacciare la rabbia contro questi crimini di guerra per «odio antisemita» è un'operazione intellettualmente disonesta e moralmente sbagliata.

Per giunta, quando da 21 mesi ogni slogan pro‑Palestina viene rapidamente etichettato come antisemita («Free Palestine», «From the river to the sea», «Globalize the intifada»), era inevitabile che la retorica si radicalizzasse. Se tutto è antisemitismo, nulla lo è più: la parola perde senso, la violenza reale rimane impunita.

Critiche legittime, ma al bersaglio sbagliato

Si può obiettare che augurare la morte a chicchessia sia politicamente inutile o eticamente discutibile. Vero. Ma la l'accusa andrebbe rivolta a chi detiene il potere, non a un duo di artisti. La desensibilizzazione di massa alla sofferenza palestinese è opera dei governi che riforniscono di bombe Tel Aviv e dei media che relegano le stragi a un trafiletto. Criminalizzare lo sfogo di un musicista mentre si forniscono aerei F‑35 a Israele – decisione appena convalidata dalla Corte Suprema britannica – è pura ipocrisia di Stato.


L'arma dell'accusa di antisemitismo

Siamo a un bivio: il sostegno popolare alla liberazione palestinese cresce (sondaggi UE e USA mostrano maggioranze critiche verso Israele), a pari passo della repressione. Nel Regno Unito, il governo laburista promette leggi antiterrorismo più dure, la polizia invoca indagini penali sui manifestanti, e il programma "Prevent" sorveglia studenti pro‑Palestina da anni.

L'accusa di antisemitismo è diventata il manganello perfetto: consente di soffocare il dissenso, screditare gli attivisti e legittimare una deriva autoritaria che colpisce innanzitutto migranti, musulmani e antirazzisti – e, paradossalmente, rende gli stessi ebrei un paravento dell'oppressione. Così la lotta all'antisemitismo viene snaturata e separata dalle altre battaglie per i diritti umani, creando nuove fratture sociali.


Normalizzare il genocidio, criminalizzare la protesta

La strategia israeliana di "far diventare normale" il massacro sta funzionando: mentre la gente muore a Gaza, l'establishment britannico mette all'ordine del giorno sul banco dell'accusa i cori di un festival e le bandiere ai cortei. Chi denuncia la complicità del Regno Unito viene etichettato come un estremista; chi chiede boicottaggi pacifici rischia l'arresto; chi osa scandire degli slogan finisce per venire indagato.

E quello del Regno Unito è un esempio perfetto di quanto potrebbe accadere - ma che è già accaduto - in qualsiasi altro Paese del cosiddetto occidente democratico.


Come rispondere a tutto questo?

Senza fare un passo indietro. Ogni tentativo di demonizzare la solidarietà con la Palestina va smascherato per quello che è: un attacco ai diritti civili.
Essere strategici. La rabbia è comprensibile, ma dev'essere incanalata in campagne efficaci: blocco degli armamenti, azioni legali, pressione politica costante.

Rifiutare la falsa dicotomia. Difendere i palestinesi non significa minacciare gli ebrei; combattere l'antisemitismo non implica sostenere l'IDF.

Costruire alleanze. Solo un fronte largo, che includa comunità ebraiche critiche, movimenti antirazzisti e sindacati, può spezzare la narrazione tossica che equipara protesta a terrorismo.


Il caso Bob Vylan è l'ennesimo esempio di un mondo da tempo capovolto: chi bombarda viene armato, chi protesta viene inquisito. Se l'apparato filo‑israeliano alza il tiro, è perché teme di aver perso la legittimità morale. Sta agli "onesti" – movimenti, giornalisti indipendenti, cittadini – diffondere la verità, senza edulcorare nulla.

Perché finché i governi occidentali chiuderanno gli occhi sul genocidio a Gaza, la rabbia non farà che crescere. E a quel punto, il problema non sarà certo un coro a Glastonbury.