Il Movimento Internazionale dei sacerdoti sposati condivide un testo del teologo Giuseppe Lorizio apparso in  avvenire.it:

"Mentre ci ritroviamo ancora una volta ad accompagnare con la preghiera e la vicinanza affettiva un ulteriore momento di fragilità che sta vivendo il vescovo di Roma, vengono in mente i processi da lui avviati nello spirito e nella direzione della Evangelii gaudium e anche alcune osservazioni critiche, avanzate su media di diversa appartenenza, in occasione dei dieci anni di pontificato, tendenti a mettere in rilievo l’incompiutezza in particolare di diverse riforme da lui avviate. Ma si tratta davvero di criticità e di mancanze o non dobbiamo leggere il non ancora completo raggiungimento di alcune di quelle riforme come un’opportunità e una risorsa? Da opere di Michelangelo, quale innanzitutto la Pietà Rondanini, alla sinfonia numero otto di Franz Schubert, fino ai teoremi dell’incompiutezza di Kurt Gödel, l’arte e la scienza contemporanee, proprio con le loro incompletezze, esercitano un notevole fascino sulle nostre menti, in quanto ci aiutano a prendere le distanze da un “perfettismo”, che, ad esempio in politica, può generare il totalitarismo. Un autore che ci aiuta ad articolare una decisiva critica nei confronti del perfettismo (inteso come un sistema che ritiene possibile la perfezione nelle cose umane) in campo politico e giuridico è certamente il beato Antonio Rosmini. Egli intravede proprio in questa prospettiva una tentazione antiumana, in cui cade chi anela a esercitare un potere assoluto sugli altri e sulla società. Ed è il pensatore che ha meditato con notevole profondità non sui «mali», come aveva fatto Lamennais, ma sulle «piaghe» della Santa Chiesa (cinque come quelle del Crocifisso). Siamo convinti che, nelle fessure dell’incompiutezza e della fragilità, si faccia strada la possibile irruzione dell’alterità, che, per noi credenti, si identifica con l’avvento dello Spirito Santo nelle umane vicende. Uno Spirito che soffia dove vuole e non si lascia irretire nelle nostre griglie speculative o pratiche. Nessun “sistema” si può considerare completo ed esaustivo, come il grande matematico appena citato ha dimostrato con tesi che sembra impossibile confutare, adottando quella «logica del paradosso», che, a detta di una grande teologo come Henri de Lubac, attraversa i vangeli e caratterizza la Chiesa. E il paradosso, che di volta in volta siamo chiamati a vivere e sostenere, è quello espresso da Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (12,10): «Quando sono debole, è allora che sono forte». Per troppo tempo abbiamo pensato erroneamente la comunità credente come societas perfecta, aderendo a un modello giuridico, che oggi, alla luce soprattutto del Vaticano II, possiamo ritenere archiviato, anche se non del tutto superato, perché la formula non è falsa, ma appunto “incompleta” e, se considerata esaustiva, fuorviante. Siamo, come ci ricorda con l’ultimo Concilio questo Papa, un popolo in cammino e i processi avviati non sono destinati a concludersi in tempi brevi e, se si tratta della “riforma”, neppure a lungo termine, perché la Chiesa è in perenne stato di riforma, ossia di conversione. Del resto, quando con Tommaso d’Aquino affermiamo che «la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura [umana]» (Summa Theologiae I, 2, 2, ad 1) non possiamo ignorare il fatto che l’azione della grazia non vede il suo compimento in questa vita, ma in quella futura. Inoltre, proprio papa Francesco, in più occasioni, ma mi piace ricordare il convegno ecclesiale di Firenze 2015, ricorda che «La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: si chiama Gesù Cristo». E questo perché un sistema chiuso impedisce l’azione dello Spirito e non apre all’alterità degli altri e di Dio. Così la riforma della curia (Praedicate Evangelium), col dichiarato ed evidente primato dell’evangelizzazione, e quella della diocesi e del vicariato di Roma (In Ecclesiarum Communione), col profondo riferimento teologico alla «rete sacramentale», su cui si deve innervare l’agire ecclesiale, hanno avviato dei processi che ora sono affidati agli operatori pastorali e ai responsabili dei diversi organismi, nonché all’intero popolo di Dio. In questo senso il Papa indica la direzione da prendere e siamo noi, che, con lui, dobbiamo camminare, non ritenendoci mai degli arrivati. E, per quante resistenze possa attivare, l’insistenza sulla necessità di rinunziare a privilegi, che nulla hanno di evangelico, è ulteriore motivo per farci ritenere più che giusta la direzione indicata. Alla vigilia della settimana di Passione e della Pasqua di Resurrezione contiamo che papa Francesco possa presiedere i riti fondamentali di questa santa settimana. Lo speriamo, ma non ne siamo certi. E in questa incertezza attingiamo alla Croce, che siamo chiamati ad adorare e nella quale si svela la fragilità di Dio e si esprime il suo nascondimento. Non è la prima volta che la Settimana Santa viene accompagnata dalla malattia del Vescovo di Roma (ricordiamo Giovanni Paolo II), se non avremo la gioia, che auspichiamo, di poter vedere papa Francesco celebrare i riti, li vivremo ancor più come momento di preghiera e solidarietà con la sua infermità e quella di tutte le persone che vivono nella sofferenza fisica e morale. È comunque saremo sul cammino che ci indica.