Nel 2005, a pochi giorni di distanza, il Mediterraneo vede due incidenti. Il primo accade su un charter ATR 72 Bari/Gerba, compagnia low coast Tuninter, passeggeri tutti italiani. Praticamente dalle parti di Ustica partì il mayday, e il pilota fu costretto ad ammarare: in sedici lasciarono la vita. Nella ricostruzione televisiva viene evidenziata la pressione sul comandante, che, per guadagnare tempo, non avrebbe rispettato le procedure sul controllo del carburante, errore alla base dell’avaria; non possiamo tacere sulla testimonianza del fidanzato di una delle vittime, un poliziotto, che non esita a dichiarare di non aver rispettato le norme di sicurezza, inducendo la ragazza a gonfiare il giubbotto prima della caduta in mare, procedura vietatissima.
Passano pochi giorni, è il 14 agosto. Un Boeing 737 della Helios Airways parte da Larnaca, Cipro, diretto ad Atene. Ci dicono che i piloti ( un tedesco coadiuvato da un cipriota) non seppero valutare un problema di pressurizzazione, peraltro dovuto a una serie di malfunzionamenti trascurati da chi effettuava le riparazioni, provocando l’ipossia degli occupanti, compresi loro stessi: tutti svenuti, con l’aereo fantasma senza guida e affidato al solo pilota automatico.
Il racconto è ingentilito dalle parole struggenti del papà di uno steward, prossimo sposo di una hostess, entrambi di quell’equipaggio. Il ragazzo, che stava studiando per ottenere il brevetto di volo, entrò barcollando in cabina e tentò di raddrizzare la situazione, senza successo, all’inizio scambiato per dirottatore. Vegliato da due caccia, che non riuscirono nemmeno a deviarlo, l’aereo finì il carburante, si schiantò sulle montagne, a 40 chilometri dalla capitale greca e con esso i passeggeri privi di sensi.
A volte non ci si capacita di come un misunderstanding o una mancata comunicazione siano all’origine di certe calamità a base umana. Un esempio – a quanto riportato a suo tempo - ne fu l’incidente di Genova, il 25 febbraio 1999. Un Dornier della Minerva Airlines, proveniente da Cagliari, “ciccò” l’atterraggio finendo in mare, con quattro morti annegati. Il nostro aeroporto è miserello, schiaffeggiato dal vento e a bordo mare, ma la pista, allungata a suo tempo, era stata dichiarata idonea a qualunque tipo di velivolo – benché, a bordo di un vecchio DC9 in decollo, una volta ce la vedemmo brutta, come abbiamo già narrato. Le polemiche furono molte, con rimpallo di responsabilità, fino alla richiesta di rito abbreviato, che vide il pilota condannato a due anni e otto mesi.
7 settembre 2011: siamo in Russia, alle prese con nomi che ci vedono meno disinvolti. Riprendiamo da WIKI: “ Uno Yakovlev Yak-42D della Yak-Service, con a bordo i giocatori e lo staff tecnico della squadra di hockey su ghiaccio della Lokomotiv Jaroslavl', partecipante alla Kontinental Hockey League (KHL), si schiantò poco dopo il decollo dall'aeroporto di Jaroslavl', in Russia.Dei 45 viaggiatori, ne sopravvisse solo uno”.
Sapete qual era il problema? Il tipo di aeromobile: un modello leggermente cambiato al suo interno; il pilota non sapeva che la pedaliera aveva una foggia modificata, per cui premette il piede laddove non avrebbe dovuto. Pare impossibile.
Cambiamo capitolo. Vengono definiti “mass murderer” i serial killer che, anziché uccidere i malcapitati uno a uno, o due a due massimo ( tipo “ mostro di Firenze”), fanno una strage: non motivata ideologicamente, bensì per crudeltà, frustrazione, odio cieco, difficoltà personali, in preda a profonda depressione. Quando il depresso è in cockpit, tutto può accadere, e questi sarebbero i risultati.
Il 26 settembre 1976 un pilota russo si fionda col mezzo su Novosibirk, contro casa sua, per vendicarsi della moglie che lo aveva lasciato: fa un macello, ma si salva lei, che non era in casa. Sono notizie, al tempo, da oltrecortina: tutte da verificare.
9 febbraio 1982, Japan Airlines ( mica niente): sulla pista di Tokio il comandante giapponese Katagiri, 35 anni, in fase di atterraggio devia improvvisamente il Douglas DC 8 e lo scaraventa in mare, muoiono in ventiquattro. Lui era esaurito, l’avevano curato, era tornato a volare, si è salvato, all’inizio fingendo di essere il primo ufficiale ( questi giapponesi, o kamikaze o paraculi): è tutto, da terra nipponica.
21 agosto 1994. Un bell’ATR 42 della Royal Air Maroc, fresco di cinque anni, porta quarantaquattro persone, tra esse otto italiani e il parente di un politico del Kuwait, da Agadir a Casablanca. Il comandante, Younes Khayati, a pochi minuti dal decollo, prende e lo fa schiantare. Fu sempre detto che dalla scatola nera era emerso un drammatico dialogo, tra lui e la copilota Sofia, di cui era innamorato respinto, anche se l’associazione di categoria marocchina ha sempre contestato tale versione.
31 ottobre 1999. In arrivo da Los Angeles, dopo uno scalo a New York, un Boeing 737 della Egyptair finisce in oceano al largo di Nantucket. Le autorità americane sentenziano che è colpa del pilota Jameel El Batouti, afflitto da angustie economiche per la malattia della figlia: a riprova, si parla di una preghiera coranica prima della picchiata. In Egitto replicano che non è affatto vero, ma non offrono ipotesi alternative ed è fiorito anche qualche pettegolezzo.
Difficoltà economiche sarebbero altresì all’origine del malessere del pilota del Boeing 737 della Silkair, in partenza da Giacarta, che il 19 dicembre 1997 abbatté il suo aereo: prima della decisione, avrebbe avuto cura di stipulare una polizza sulla propria vita, per salvaguardare la famiglia.
Il ricordo più recente riguarda il gesto kamikaze del tedesco Andreas Lubitz: ai comandi dell’airbus Germanwings 9595, tratta Barcellona – Düsseldorf, trascinò con sé 150 passeggeri e ovviamente l’equipaggio, abbattendosi sulle alpi provenzali. In questo caso avremmo tutti i dati, dialoghi compresi e la sintesi è questa: il comandante Patrick Sonderheiner si concede una scappata al bagno ( esterno alla cabina), visto che la ritardata partenza gli ha impedito di farlo a terra; Andreas, rimasto solo, blinda la porta, tace – si ode il suo respiro nella registrazione –mentre Patrick urla disperato l’ordine di apertura e Lubitz è già intento alla sua implacabile picchiata. Perché mai il folle gesto? Ne abbiamo sentite di ogni: problemi in famiglia, fragilità nervose, la sua donna incinta. Alla fine, si concorda che il problema parte dalle norme di sicurezza post 11 settembre, che obbligavano a tenere chiusa la porta di comunicazione della cabina di pilotaggio. Ma, ci chiediamo: perché escludere la possibilità di un ingresso a codici speciali, anche solo pensando a un malore e non all’imprevedibile attacco suicida di chi è solo alla cloche?
Un accenno ai controlli ferrei introdotti in aeroporto, appunto dopo la catastrofe del 2001: in verità, sussistevano altre valide ragioni per anticiparli, pensando ai sussurri su traffici del personale aeroportuale, più che a eventuali coltelli in mano a passeggeri, che obbligano, oggi, agli spogliarelli al metal detector. Tuttavia esistevano anche altri rischi, come si vide il 7 aprile 1994.
Auburn Calloway, dipendente della FedEx, stretto dai debiti, pensa di truffare l’assicurazione morendo in un incidente; si imbarca fruendo di agevolazioni concesse dalla ditta ai suoi funzionari, aggredisce a martellate i piloti e per poco non succede il peggio, per fortuna sventato dall'abilità degli aviatori.
Qualche volta si è presentato il caso di un’invasione di spazio aereo, questione delicata soprattutto in tempi di guerra fredda. Per esempio, il primo settembre 1983 un volo della Korean Airlines fu abbattuto dai russi nel mar del Giappone, con tale “scusa” – c’era un precedente del 1978. Molti anni dopo, però, a muri abbattuti, qualcuno rivelò una realtà diversa. I morti furono 269. I piloti, di provenienza militare, godevano della piena fiducia del loro governo, Corea del Sud (filoamericana). Tra i passeggeri, c’era il membro del congresso statunitense Larry MacDonald, di parte democratica, ma su posizioni conservatrici e con fama di antisovietico.
Saltiamo i dirottamenti, che hanno una storia a parte, e accenniamo ai voli “scomparsi”.
Il primo giugno 2009 un airbus A330 della Air France in volo da Rio de Janeiro a Parigi, con 228 persone a bordo, fa perdere le sue tracce sull’Oceano Atlantico. L’indagine è sempre in progress e vacilla tra molte tesi, dopo il faticoso recupero delle scatole nere. Tra i passeggeri c’era un attivista contro il traffico di droga e armi, ma sarà un caso.
L’8 marzo 2014 un Boeing 777 della Malaysian Airlines, in volo da Kuala Lumpur a Pechino, svanisce con i suoi 239 occupanti, nel mar cinese meridionale. Anni dopo, si ritroveranno detriti al largo del Mozambico. Molte stranezze sono state rilevate ma, in mancanza di meglio, si è pensato al gesto anticonservativo del comandante, senza peraltro prove a sostegno.
Il volo conserva un tratto onirico, ma la sicurezza è, prosaicamente, sempre migliorabile. Sui misteri, ci stiamo attrezzando.