«Meglio soli che male accompagnati». così recita un vecchio proverbio di rara verità. Quando mai può essere piacevole la compagnia di persone tossiche, come narcisisti, piagnucoloni, egoisti o stupidi arroganti. Indubbiamente è preferibile la solitudine.

Invece no!
Perché dipende. Non tanto, ma in qualche misura.

Evitare le cattive compagnie, come quelle persone tossiche, non conduce alla conseguenza di dover stare da soli. Non dobbiamo fraintendere il proverbio che consiste in un iperbole, l'extrema ratio di chi, dovendo scegliere se stare da solo o in compagnie spiacevoli, sceglie chiaramente la solitudine. Ora, la solitudine può essere una cosa piacevole se si è inclini a essa; ma diventa una crudele sofferenza per la maggior parte delle persone.

Anche l'indole più irriducibile e amante della solitudine necessita i suoi costanti momenti di socialità. Gli eremiti sono altro, e di certo eccezioni.

Avere delle connessioni con buone compagnie non è opzionale. Che siano amici, parenti, compagni di vita, stare in connessione con loro è una delle condizioni essenziali al nostro equilibrio psico-fisico (ne parlavo anche in "Stile di vita..."), perché l'uomo è generalmente un “animale” sociale, o da branco se vi piace meglio il termine.

La solitudine è un valore, una grande medicina, anche per lunghi periodi, ma quando rimane confinata in questa sua dimensione di strumento e non di condizione forzata o addirittura perpetua. Quando, cioè, la dosiamo noi stessi come ogni altro bisogno della vita.

Torniamo un momento a quel circondarsi di buone compagnie.

Il mondo va alla rovescia, lo dico spesso. Una di quelle volte in cui succede è quando pretendiamo che sia solo chi ha bisogno a doversi muovere e fare i salti mortali per risolvere la sua condizione di eventuale malessere. Così, quando ci si ritrova soli per un motivo o per un altro, si dovrà trovare il modo di riemergere e farsi notare. Trovarsi un gruppo, nuovi amici, sanare magari dei rapporti incrinati. Tutto grava su chi subisce il malessere.

Ma la solitudine non è mica un malanno da risolvere con un medico! Anzi no: chiamiamolo pure “malanno”; ma per questo genere di guaio non esiste un vero e proprio medico o una branca speciale della medicina. Il medico è la società, tutti noi, le buone compagnie che osservano con acutezza il genere umano che li circonda, scrutando di tanto in tanto negli occhi dei propri simili e in quelle porte da cui non passa mai nessuno, se non loro stessi.

«Basta!». L'unica parola che viene in mente ogni volta. E rimane lì, nel momento di rammarico destinato a diradarsi in pochi minuti, sovrastato da una quotidianità avvelenata. Un vivere così tanto per se stessi da non riuscire più a dare valore a nient'altro e nessuno, e in quel niente ci sono persone come noi che svaniscono nel silenzio di una stessa vita: uguale alla nostra, ma giunta al termine.

Siamo lo stesso male che è necessario curare. E si muore in solitudine.
Noi, infine, lo apprendiamo dall'informazione, che con pietosa ipocrisia ne parla confezionando quell'ennesima notizia sul dramma di chi aveva perso tutte le sue connessioni sociali. Di quell'ennesima persona che dopo settimane, o mesi, e talvolta anni, viene a mancare. In casa propria, senza che nessuno l'avesse cercata. Senza che nessuno se ne fosse accorto.

L'abbiamo appena detto: il genere umano non è naturalmente portato a isolarsi. Tutti necessitano di socializzare, costruire insieme, confrontarsi con i propri affetti, amori, amicizie. E sarebbe impossibile rimanere soli, se non in quei momenti in cui la solitudine è ricercata, appunto, come medicina. L'unico momento in cui essa ha valore.

Quel male, così assurdo, di perdere tutte le connessioni con i propri simili perché non abbiamo più tanto da dare, o non abbiamo proprio nulla, è inaccettabile. Non dovremmo più pensare quel “meglio soli che male accompagnati” verso chi prova a trasmettere il proprio malessere, ma circondarli, se possibile, della pienezza della nostra compagnia.

Meglio con noi, che male accompagnati!



base foto: "Sulla soglia dell'eternità", dipinto di Vincent van Gogh (1890), pubblico dominio