"A qualcuno piace caldo", film in bianco e nero del 1959. La regia era del magistrale Billy Wilder, nato nel 1906 e vissuto quasi cent'anni.
Il soggetto è di per sé stuzzicante: nella Chicago del 1929, in pieno proibizionismo, due musicisti sempre squattrinati, un sassofonista sciupafemmine, e il contrabbassista brontolone, perennemente intenti ad impegnare il poco che hanno per sopravvivere, si ritrovano, in un garage, nel bel mezzo di un regolamento di conti tra mafiosi ispirato alla “strage di San Valentino”; testimoni pericolosi, riescono a scappare, si travestono da donna e provano a imboscarsi in un'orchestrina femminile, spacciandosi per virtuose professioniste.
Il gruppo in cui entrano è formato da ragazze festaiole e poco affidabili, tra cui "Zucchero", che presto farà innamorare entrambi i "travestiti".
Sfuggire ai malavitosi sarà comunque un'impresa difficile, visto che nel finale l'orchestra si ritroverà a suonare in un albergo di Miami dove anch'essi sono allocati. Un colpo di fortuna, in cui i picciotti finiscono per autosterminarsi, sottrarrà i protagonisti al peggio e la scena finale è degna del più puro genere grottesco.
La pellicola si snoda tra esilaranti imbarazzi al momento di togliersi gli abiti, innamoramenti improbabili di uomini amanti del genere maschietta, che scambiano i nostri (autoribattezzatisi Dafne e Josephine) per femmine ipertoniche, e qualche considerazione neo femminista ante litteram; oltre, naturalmente, il consueto raffinato riferimento alle ambiguità della vita, in cui Wilder si destreggiava abilmente, sfondando qualche tabù dettato dalle regole vigenti a Hollywood.
Il sassofonista playboy è interpretato da Tony Curtis (1925/2010), che si dovrà giostrare freneticamente nella doppia parte maschio/femmina, fingendosi anche un petroliere impacciato per agganciare la bella Zucchero/Marylin, suonatrice di ukulele delusa dall'amore; Jack Lemmon (1925/2001) dovrà guardarsi dalle proposte matrimoniali di un ricco miliardario pluridivorziato. Intorno a loro gravita un mondo di comprimari di valore, come Gorge Raft, che interpreta il mafioso "Ghette", e pare lo fosse anche nella vita.
Non crediamo esista al mondo qualcuno, cinefilo o meno, che non abbia riso, più o meno irresistibilmente, vedendo la pellicola, almeno la prima volta.
Il dietro le quinte è un po' meno leggendario. Wilder aveva diretto precedentemente la Monroe in "Quando la moglie è in vacanza", nel 1955; ne conosceva il temperamento instabile, ma contava sul fatto di ritrovarla tranquillizzata dal matrimonio con il famoso drammaturgo Arthur Miller, il che si rivelò illusorio.
La diva continuava nei suoi cronici ritardi e fu in questa occasione che dovette ripetere una breve scena sessantacinque volte, esasperando i partner maschili, all'inizio felici di lavorare con lei e quasi intimiditi. Era incinta (e si intravede), come al solito alle prese con una gravidanza difficile e le sue turbe medicinali (infatti anche quella volta finirà per perdere il bambino), irritabilissima. Talvolta la mattina non si presentava al lavoro, ma quando Wilder protestò con Miller ne nacque un pantano: Marylin al marito diceva di andare sul set...
A noi piace ricordare uno scorcio precedente alla esilarante conclusione, quando la Monroe, disperata dopo che il falso riccaccione Curtis, ormai tallonato dai gangsters, l'ha mollata per telefono, canta sul palco "Bye bye baby"; ma lui arriva, la bacia con ancora indosso i vestiti da donna e le intima: "Non piangere, Zucchero: non c'è uomo che lo meriti".