Aggressioni, soprusi, arresti indiscriminati. In Tunisia poche settimane fa è partita la caccia allo straniero: migliaia di subsahariani travolti da una feroce campagna di odio. Ad accendere la miccia ci ha pensato il presidente (nella foto in basso). «Il nostro Paese è vittima di un piano criminale volto a mutare la composizione etnica e demografica della Tunisia», ha tuonato Kais Saied, «con il pericolo reale che in pochi anni la popolazione araba e musulmana venga sostituita da una popolazione nera». Parole incendiarie che hanno spinto forze dell’ordine e semplici cittadini a scagliarsi contro gli immigrati dell’Africa nera, su cui è stata scaricata la responsabilità della grave crisi economica del Paese. Decine gli assalti e gli abusi, che hanno indotto governi come quelli di Costa d’Avorio, Mali, Gabon e Guinea ad attivarsi per rimpatriare centinaia di connazionali.
All’altro capo del continente, negli stessi giorni il Sudafrica veniva sconvolto da nuove violenze xenofobe, con morti e feriti tra gli stranieri. Nella Nazione Arcobaleno vivono quattro milioni di immigrati da Zimbabwe, Mozambico, Malawi, Somalia, Nigeria, Etiopia e Congo. Sono per lo più manovali sottopagati, che si ammazzano di fatica e rischiano la vita nei cantieri edili, nelle miniere, nelle fabbriche e nei campi. Benché indispensabili per far correre la locomotiva sudafricana, diventano periodicamente il capro espiatorio di un profondo disagio sociale causato dall’alto tasso di disoccupazione e dal pauroso divario tra ricchi e poveri. L’ultima ondata di violenze contro gli stranieri ha causato tensioni diplomatiche coi governi dei Paesi interessati: la Nigeria si è spinta a minacciare la chiusura di imprese sudafricane presenti nel suo territorio. Il presidente Cyril Ramaphosa e altri esponenti di spicco dell’Anc, il partito al potere dalla fine dell’apartheid, pur condannando le violenze hanno negato che esista un’emergenza xenofobia, benché dal 2000 si sia registrata una lunga serie di linciaggi e rappresaglie che ha provocato centinaia di vittime tra gli stranieri.
Il presidente tunisino, Kais Saied
Tunisia e Sudafrica non sono casi isolati. In varie regioni, a cominciare dal Sahel e dall’Africa occidentale, cresce la rabbia verso un’immigrazione interafricana che una parte dell’opinione pubblica ritiene fuori controllo o pericolosa. Si moltiplicano gli episodi di violenza a sfondo etnico alimentati dall’instabilità che interessa, per esempio, la Repubblica Democratica del Congo, la Nigeria, l’Etiopia, il Sud Sudan. La storia recente insegna quanto sia facile per politici spregiudicati strumentalizzare i contrasti interetnici fino a farli degenerare in terrificanti carneficine (Rwanda 1994, Kenya 2007, Costa d’Avorio 2010). Non andrebbero pertanto sottovalutati raid e sopraffazioni contro gruppi etnici, minoranze, o stranieri, che spesso vengono derubricati a “incidenti isolati”. Il virus razzista non conosce confini, s’insinua facilmente a ogni latitudine, in particolare laddove i leader politici – bianchi o neri, non importa – si dimostrino incapaci di risolvere i problemi e le tensioni sociali, e trovino conveniente scaricare sugli stranieri le responsabilità dei loro fallimenti. C’è da augurarsi che gli africani sappiano essere migliori di noi, e dei loro governanti, riscoprendo i valori fondanti dell’Unione Africana, respingendo la retorica anti-immigrati che già avvelena il clima nella Fortezza Europa.
di Marco Trovato, direttore editoriale della Rivista Africa