Cos’è una diva? Che rappresenta, dove proietta le fantasie di chi la elegge a propria icona? A ognuno le risposte che preferisce. Oggi il concetto è molto cambiato, veicolato dai social e da innumerevoli scatti, ritoccati e taroccati a volontà.

Si obietterà: questo è sempre avvenuto. E sia. Si dovrà però convenire che in passato la distanza tra il comune mortale e la dea appariva siderale, laddove oggi, mentre tale resta, in realtà pare accorciata appunto dai nuovi media: lei è lì, ci parla, twitta, è quasi una di noi.

Oggi ricordiamo una donna che non è esattamente dimenticata, perché l’era del web invia sempre richiami e i nomi seguitano a svolazzare nell’aere, ma fatalmente è nella schiera delle statue di un museo sempre meno frequentato.

Iolanda Cristina Gigliotti nasce nel 1933 al Cairo, dove era attiva una forte comunità italiana (ne parliamo nel nostro libro “Terra d’Ombra – Colonialismi italiani e clandestini in patria - Eidon Edizioni”). La famiglia d’origine è calabrese. Il papà è un musicista; in tempo di guerra tornò distrutto dalla prigionia inglese e vederlo spegnersi traumatizzò la ragazzina.

Tuttavia la vita continua e Iolanda, dotata di un fisico filiforme e un viso ben caratterizzato, dopo una trafila ai concorsi di bellezza, conquista addirittura la fascia di Miss Egitto.

A questo punto va citata la fiction del 2006, nel ruolo della cantante c’è  Sabrina Ferilli. Si racconta di una gavetta penosa, durante la quale la futura stella patisce addirittura la fame.

Non sappiamo se ciò sia realmente avvenuto, nemmeno attraverso le parole del fratello Bruno, detto Orlando ( l’unico e non due, come si legge da qualche parte), produttore musicale anche della sorella, che intervenne alla commemorazione orchestrata, sempre magistralmente, da Paolo Limiti negli anni novanta.

Quel che è certo è che la ritroviamo a Parigi, da dove spicca il volo una carriera internazionale, all’inizio da attrice, poi decisamente virata sul canto, sorretta da un management di tutto rispetto, a partire da Lucien Morisse ( suo primo e unico marito), Bruno Coquatrix, Eddie Barclay. Iolanda conosceva e parlava fluentemente molte lingue,  ovviamente, anche l’italiano. Il suo manifesto è sempre il pezzo “Bambino” tratto da un originale del napoletano Aurelio Fierro, che ancor oggi in Francia è un classico. Si esibì ovunque, anche a Broadway. Si produsse in tutti i generi, dalla discomusic all’etnico, un esempio per tutti, appunto, “Dirla dirladada”, da una ballata tradizionale greca.

Il suo personaggio ha però sovrastato l’artista. Può essere che all’inizio l’interessato si presti alla manipolazione, in cambio di fama e quattrini; in qualche caso, e questo potrebbe esserlo, il gioco prende la mano.

Finito il matrimonio con Lucien, Dalida incappa, secondo i rotocalchi, nel grande amore Luigi Tenco ( sulla cui vicenda abbiamo approfondito nel libro “Complottista io?”, Carmen Gueye, Eidon edizioni). L’ombroso piemontese, così vuole la versione ufficiale, recalcitra a salire sul palco sanremese nel 1967; secondo i suoi detrattori, finge di farlo in ossequio alla sua immagine “contro”; stando alla fiction, ci arriva pesantemente irriso e disprezzato dai colleghi, poiché in coppia con la famosa chanteuse, nel frattempo sua fidanzata, viene dato per futuro vincente e opportunista.

Sappiamo come andò. Il pezzo non arrivò nemmeno in finale e, da allora, si è sparsa la voce che “Ciao amore ciao” non avesse nulla a che vedere con pene d’amore, piuttosto alludendo, nelle intenzioni di Luigi che l’aveva composto, a saghe di migranti. 

Sia come sia, Tenco fu trovato “sparato” in camera, accanto una lettera di risentimento verso il pubblico italiano di plebei ignoranti; Dalida cercò di seguirlo, inaugurando i tentativi di suicidio, non esente perfino da sospetti sul ruolo avuto in quella strana morte.

Dopo molti anni saltò fuori che il cantautore avrebbe disistimato l’occasionale compagna, e mai avrebbe lasciato per lei la fidanzata storica, conscia del tradimento, giustificato con l’esigenza di trovare il veicolo per sfondare: una melma per tutti, fosse vera.

Vero invece è che Iolanda si riprese alla grande, ma per tutti doveva rimanere una sorta di vedova perenne del semiesistenzialista collega defunto, sul quale veniva pressata nelle interviste.

Figurarsi poi quando si seppe che anche l’ex marito, Morisse, si era suicidato nel 1970; e un altro suo fidanzato, descritto mago di professione, alchimista e occasionale cantante (soprattutto grazie a lei)  morì suicida insieme alla sua nuova donna, nel 1983, per autoasfissia in automobile: si può ipotizzare una bella etichettatura in stile Mia Martini e lo sprofondo psicologico di Dalida.

E’ così che l’artista francese, considerata seconda solo a Edith Piaf (accomunate da origini italiane), il 3 maggio 1987 si prende le sue pillole e si sdraia, impeccabile, sul letto dove morirà, evitando signorilmente un ritrovamento caotico e un po’ dirty in stile Marilyn. Anzi, Iolanda Cristina “Dalida” lascia un educato biglietto: “Perdonatemi, la vita mi è insopportabile”.