Accompagnato dall’applauso del personale di Palazzo Chigi sabato mattina Giuseppe Conte ha ceduta la campanella del premierato a Mario Draghi.

Dalle prime dichiarazioni si apprende che dovrebbe tornare alla sua cattedra di diritto privato presso l’Università di Firenze.

Ricomincerà, per sua fortuna, ad interloquire con studenti più garbati e civili degli inaffidabili e litigiosi politici romani.

Sarà sufficiente al professor Conte, però, riavvolgere il nastro di quei 988 giorni trascorsi a Palazzo Chigi per rendersi conto, con pazienza ed obiettività, di essere stato ostaggio di alcuni componenti dei due esecutivi da lui guidati.

Assolutamente pivello ha debuttato sul palcoscenico della politica confidando oltre misura nella affidabilità e buona fede di politici mestieranti, senza rendersi conto, quel 1° giugno 2018, dei rischi che avrebbe corso osando sedersi sulla poltrona di premier del sessantacinquesimo esecutivo.

Inesperto e consigliato male, ha persino consentita nel suo primo governo la presenza di due vicepremier: Matteo Salvini e Luigi Di Maio.

Da uomo di mondo e persona intelligente il professor Conte avrebbe dovuto porre un freno, fin dalle prime ore, alle incontinenze del brancaleone padano, famelico di potere, e del bibitaro partenopeo, ansioso di visibilità.

Evidentemente, invece, devono essergli mancati gli attributi per bloccare i loro eccessi finendo così giorno dopo giorno, per diventare loro ostaggio.

Salvini, più marpione, ha approfittato della situazione e senza pudore ha iniziato a comportarsi come se fosse lui, di fatto, il vero premier.

Infatti, nell’assordante silenzio di Conte, il padano ha travalicati presto i confini del suo mandato di ministro degli interni ed ha iniziato ad incontrare associazioni imprenditoriali, sindacati, amministratori locali, per discutere con loro problemi e programmi che nulla avevano a che vedere con il dicastero di cui era titolare.

Di Maio dal canto suo, una volta imposti alcuni personaggi a lui vicini (NdR: ad esempio Rocco Casalino), ha dato sfogo al suo narcisismo, saltando da uno studio televisivo all’altro per spacciare come opera sua ciò che l’esecutivo si proponeva di discutere ed approvare.

Conte è stato ostaggio di Di Maio, però, tollerandone errori e prevaricazioni ancora nel corso del secondo governo.

Un supponibile senso di gratitudine nei confronti di chi lo aveva indicato come Premier, già nel 2018, deve aver fatto perdere a Giuseppe Conte la necessaria lucidità  nel valutare l’operato di Di Maio.

Solo così, infatti, si può spiegare come, dopo il  debutto, fallimentare per incompetenza ed incapacità, da ministro sia del lavoro che dello sviluppo nel primo governo, Conte abbia accettato che Di Maio diventasse ministro degli esteri nel secondo governo, affidandogli un dicastero per il quale oltre a capacità, competenze ed esperienze è necessario possedere una conoscenza degli scenari internazionali e diplomatici che vivono ben oltre le gradinate dello stadio di Fuorigrotta.

Non so se dopo questa esperienza il professor Conte avrà ancora voglia di ritornare un giorno a frequentare il palcoscenico della politica e con quale ruolo, di certo se avesse la pazienza di riavvolgere il nastro di questi 988 giorni potrebbe trarne molti utili spunti di riflessione e ravvedimento.