La situazione previdenziale in Italia sta per affrontare un nuovo snodo critico, a partire dal 2027, salvo interventi legislativi correttivi. Ecco il quadro aggiornato:

Dal 1° gennaio 2027, l’età per accedere alla pensione di vecchiaia passerà da 67 a 67 anni e 3 mesi. Questo adeguamento automatico è previsto dalla normativa vigente (in particolare dalla legge Fornero del 2011, che l’attuale governo aveva promesso di abolire!) ed è collegato all’aumento della speranza di vita rilevato dall’Istat.
Pertanto dal 2027, saranno necessari 43 anni e 1 mese di contributi per gli uomini (e 42 anni e 1 mese per le donne, se resta la deroga attuale), contro gli attuali 42 anni e 10 mesi.
L’Istat comunicherà i dati ufficiali e definitivi entro luglio 2025.
Il Governo, se solo lo volesse, avrebbe la possibilità di intervenire per sospendere o modificare l’adeguamento automatico. Sebbene non si stia discutendo di un ritorno ai 65 anni con assegno pieno, resterebbe almeno aperta la possibilità di bloccare l’adeguamento di tre mesi in più previsto dalla legge.
Ma sull’argomento è calato il silenzio più totale, sia del governo che dell’opposizione, sia dei medi che dei sindacati, sia degli stessi cittadini che subiscono anche questo genere di angheria muti e rassegnati!
Insomma, ci stanno preparando ad una vecchiaia lavorativa forzata, ma senza il coraggio di dircelo chiaramente. Si tace, e il silenzio è il peggior presagio: perché quando la politica non parla, spesso vuol dire che ha già deciso. Della riforma delle pensioni non se ne discute più, e il rischio è che questa quiete apparente serva soltanto a traghettarci silenziosamente verso un destino già scritto, quello di una vita intera passata a lavorare… e una pensione forse mai goduta.

Il tempo passa, ma la legge Fornero resta lì, immutabile, come una condanna a vita. Senza una vera contro-riforma, è quella norma a fare da stella polare del sistema previdenziale italiano. E cosa prevede? Un’età pensionabile che si allunga progressivamente, agganciata all’aspettativa di vita, in una logica che rasenta il paradosso: più si vive, più si deve lavorare. Ma non è solo una questione di anni: è anche – e soprattutto – una questione di soldi. Perché chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996 sarà interamente calcolato col sistema contributivo, quello che promette poco e sborsa ancor meno.

Chi ha qualche anno in più sulle spalle, magari ha fatto in tempo a maturare una quota di retributivo prima del 1995. Ma si tratta di un’illusione ottica: anche per loro, l’assegno finale sarà comunque una somma al ribasso, frutto di un sistema costruito per contenere, comprimere, risparmiare. Non per garantire dignità.

E allora viene il sospetto – più che legittimo – che la “ratio” di tutto questo sia una sola, semplice, brutale: tirare avanti il più possibile l’età della pensione nella speranza che in pochi arrivino davvero a riscuoterla. È un cinismo che fa rabbrividire, ma che ormai è difficile non vedere.

La pensione dovrebbe essere il tempo della libertà, il momento in cui il lavoro lascia spazio alla vita. E invece rischia di diventare l’ennesima beffa per una generazione spremuta fino all’osso. Non si tratta solo di giustizia sociale, ma di umanità, di rispetto, di visione del futuro.

Perché un Paese che non si prende cura di chi ha lavorato tutta la vita è un Paese che ha smesso di guardare avanti.

E allora, mentre ci spingono silenziosamente verso i settant’anni, è il momento di alzare la voce. Perché se tacciono loro, non possiamo permetterci di farlo anche noi.