I delitti della Comasca, Erba e dintorni
“Quel ramo del lago di Como” è incancellabile dalla memoria collettiva, che ciascuno abbia letto o meno la pietra miliare di Don Lisànder. La provincia è opulenta, industriale, affarista, a vocazione svizzera e, per noi che ascoltiamo da forestieri, connotata da dialetti che hanno suoni duri, austroungarici. I cognomi risuonano spesso caricaturali, per via di quell’impronta che il cinema e la televisione hanno affibbiato a ogni area italiana, grazie alla quale, da quell’angolo di profondo nord, arriverebbero solo i Luraghi, gli Inzaghi, i Casiraghi.
Invece, spulciando in cronaca, vi abbiamo trovato nomi di vittime che sanno di italiano antico, forse introdotti da migranti in tempi vicini e lontani o modificatisi nel tempo: Fontanella, Castagna, Pontiggia, Barindelli, per citare solo quattro vittime, tutte donne, assassinate dal 1996 al 2006. Tralasciamo complicate vicende di omicidi al maschile, con incroci tra pentiti di ‘ndrangheta e traffici di stupefacenti, informatori che diventano informati e poi uccisori: forse tale marmaglia non c’entra nulla, ma girava per quei luoghi e chissà quanto libera di devastare il tessuto sociale.
Di Raffaella Castagna ( e degli altri trucidati con lei) molto si è parlato e pianto; Clementina Pontiggia fu finita a coltellate e botte a Caslino d’Erba nel 2001, dal figlio laureato in legge, ma disoccupato e mentalmente instabile ( che dovrebbe aver trascorso i suoi dieci anni di pena in un ospedale psichiatrico); un poco più complicati si presentano i casi di Anna Barindelli, “sgozzata” a Bellagio il 10 aprile 2002, e Marisa Fontanella, trovata morta, trafitta da un fendente alla gola, il 7 febbraio 1996, proprio a Erba.
Sul caso Barindelli ( che qualcuno indica come infermiera, altri assistente sociale) pende un dubbio relativo alla figura del killer, un uomo sposato con moglie incinta al momento del fatto, che conosceva la casa della ragazza per aver lavorato alla ristrutturazione: amante scaricato o semplicemente spasimante respinto? Il quesito pende da un articolo all’altro, ma la famiglia di Anna accusa i media di aver distorto la reputazione della giovane, che non avrebbe avuto alcuna relazione con Massimo Gilardoni, arrestato subito, ma uscito dal carcere ben presto per acquartierarsi in una casa di cura, dove è stato una decina d’anni, con grave sconcerto di parenti e amici della vittima. Un filo rosso viene adombrato dai redattori di “nera”: biancheria intima rubata ad Anna e a Marisa, sulla quale ultima ci soffermiamo.
Avvenente ventiseienne, commessa, indipendente, fidanzata da anni ( ma il moroso ha un alibi che lo trarrà subito fuori dalla lista dei sospettati), Marisa abita in una corte di Erba, proprio come Raffaella Castagna: quelle fascinose corti lombarde, così belle anche quando diroccano, o forse anche di più, perché la decadenza ci attira e siamo tutti figli di D’Annunzio; quegli anditi all’aperto, dai perimetri più o meno regolari, su cui si affacciava la vita contadina, poi divenuti condomini, agriturismi, a volte rimasti legati alla destinazione originale, ma col trattore ultimo modello e, nelle stalle, mucche transgenicamente modificate.
Allora, a metà degli anni novanta, il profumo d’antico si avverte ancora e il complesso di via (o piazza) Carcano mostra i segni del tempo, laddove gli archivolti nascondono recessi poco frequentati. Il 7 febbraio la ragazza non si presenta al lavoro a Como, la sua auto è ancora parcheggiata in garage e si inizia a cercarla.
Mentre analizziamo gli articoli, inciampiamo presto sulle modalità del ritrovamento del corpo della poveretta: si legge che qualcuno, appoggiatosi per caso a una porta, quasi cade all’indietro perché è solo socchiusa, ma si diverge su chi lo abbia fatto: dei ragazzini che giocavano in cortile, o Tito, fidanzato dell’amica del cuore, intento alle ricerche? Si ascolta che, invece, qualcuno avrebbe notato uno scalino sbrecciato nelle scale interne e si sarebbe insospettito, in quel piccolo mondo dove tutto era sempre perfetto.
Forse non tutto. Al piano terra c’è una miniappartamento, di proprietà dei Fontanella, in disordine, affittato o già venduto ( non è chiaro) a un signore di fuori che non ci va mai ( ma perché?), chiuso da un portoncino a vetri opachi. Uno dei bambini che stazionavano lì in mattinata, in attesa del pulmino scolastico, affermerà di aver intravisto un’ombra; nessuno ha notato nulla, eppure si tratta di un piccolo spazio. Marisa, vestita per uscire, è per terra coperta da un materasso insanguinato, la borsetta svuotata, un solo colpo da arma punta e taglio alla gola, sufficiente a toglierle la vita. Accanto al corpo si trova una carota.
Le indagini corrono veloci, a tappeto. Quel giorno pare che in più d’uno, per differenti motivi, si fossero trattenuti a casa, a cominciare dalla sorella Stefania Fontanella, al datore di lavoro della vittima, per finire con un cugino della madre, Fiorenzo Alfano, 38 anni, che avrebbe svolto un turno di lavoro pomeridiano: l’unico che non viene creduto quando racconta come ha trascorso la mattinata e che abita accanto, nella stessa corte, con moglie e figlio.
Alfano, magazziniere con secondo lavoro da calzolaio, ha sempre sostenuto la sua versione. Conferma di non aver mai intrattenuto rapporti di stretta frequentazione con i parenti vicini di casa, ma di collaborazione: lui è un tuttofare, di talentuosa manualità, e lo chiamavano sempre per aggiustare e riparare qualunque cosa, comprese le serrature. Il primo cartellino giallo gli arriva per questa sua abilità: avrebbe potuto forzare una porta. Si procede all’ispezione corporale, che in verità lo mostra intatto, senza segni di colluttazione, ma un po’ peggio andrà per lui allorché si procederà alle perquisizioni in casa e nel suo magazzino/laboratorio. Mentre non si trovano sue tracce biologiche e di residui ematici né sulla scena del crimine, né nell’abitazione, giunge una sorpresa nell’officina casalinga, piena di coltelli o trincetti: egli ribatte che facevano parte delle sue attrezzature da lavoro e da hobby. Passi questo, ma non il resto, almeno per gli inquirenti: falli artificiali, in parte acquistati, in parte fabbricati in proprio, con l’anima interna costituita da una carota nonché, in giro, riviste e cassette pornografiche.
Fiorenzo ammette le sue divagazioni, ma invoca la sua reputazione sociale, in verità limpida (uomo mite e operoso, mai molestato nessuno, splendida famiglia) e rivendica il diritto personale di ciascuno alla vita sessuale che predilige: nello specifico, la moglie ( bidella) concordava su diversioni erotiche che tenessero vivo il rapporto di coppia, dopo quindici anni di matrimonio e, anzi, lui farà notare che, al processo, il ”pubblico” femminile era intrigato da tali fantasie. Egli denuncia anche l’incoerenza della tesi investigativa: premesso che non ha mai covato insani desideri verso la giovane biscugina, se mai così fosse stato, quale uomo si presenterebbe al primo approccio con in mano una carota e un coltello (peraltro mai trovato)?
Fin qui, abbiamo dato spazio alle ragioni della disperata difesa del magazziniere. Tuttavia, le tesi dell’accusa accantonano, in definitiva, le carabattole sexy, per concentrarsi su aspetti che costituiranno gli indizi sui quali basare la condanna.
La moglie combina un guaio: durante l’interrogatorio si fa scappare che ha buttato in giro, per tombini della città, refurtiva oggetto di ricettazione. Gli oggetti, dai gioielli a qualche dispositivo, verranno in effetti trovati, e qui parte la prima mazzata per l’indagato. Questi ribatte che sì, ogni tanto, acquistava qualcosa da tossicodipendenti che lo disturbavano nel negozio da ciabattino, al solo scopo di levarseli di torno, e fa il nome (meglio, il nomignolo) di un “tossico” che glieli avrebbe venduti, senza negare di aver saputo di commettere un reato; ma invoca che la situazione invivibile di artigiano assillato da tali malviventi gli aveva suggerito solo questo “escamotage” per non essere disturbato o, peggio, aggredito. La zoppicante giustificazione avrebbe avuto una sua logica, non fosse che quel materiale proveniva da un furto in casa dei Fontanella, e non il solo.
Riepiloghiamo, in sintesi, con quale impianto si andò al processo:
Fiorenzo ha spesso duplicato le chiavi di casa Fontanella; una volta, su richiesta del capofamiglia, era entrato nell’appartamentino abbandonato per porre rimedio a una perdita d’acqua, quindi conosceva l’ambiente disadorno e propizio a un assalto sessuale; attirato dalla giovane e bella parente, e al corrente dei suoi orari, forza la serratura a scatto, la bracca nell’androncino e tutto va come va ( anche se non si spiega come davvero sia andata).
A suo carico e quale precedente, si insinua che possa essere stato lui l’autore dei furti dai Fontanella, grazie a duplicati delle chiavi, atteso quel famoso materiale nei tombini, e si accenna a furti di biancheria intima di Marisa ( come poi si dice capiterà alla Barindelli), ma di questo intimo non si troverà mai traccia (curioso fosse solo di Marisa e non della sorella Stefania). A riprova si portano due impronte digitali dell’Alfano sulla superficie del meccanismo di apertura e la forzatura del cilindretto: lui replicherà appunto citando il suo ingresso nell’abituro per la riparazione della perdita idrica, proprio insieme al papà della ragazza morta, e che quindi avrebbero dovuto trovarsene a decine, casomai, non due (una e mezza, egli specifica, una con compatibilità sotto la soglia di legge). Però arriva la volata finale della pubblica accusa su telefonate a centralini erotici, con numeri annotati su un biglietto trovato nel portafoglio di Fiorenzo, chiamate che sarebbero partite dal fisso di casa Fontanella prima del delitto. Conclusione: condanna di Alfano a ventiquattro anni, scontati sedici a Porto Azzurro, liberazione nel 2012, eglio si proclamerà sempre innocente.
Fatto salvo lo scontato rispetto delle sentenze, qualche perplessità rimane. L’omicidio sembra opera di un killer professionista: un colpo preciso, né urla né gemiti, in un ambito ristretto ove nulla si è avvertito. Non abbiamo, data l’epoca, né tabulati né intercettazioni, ma risuonano echi di brutti giri e gente non raccomandabile che, a pochi anni ancora dall’applicazione della legge Iervolino-Vassalli sui centri di recupero, imperversava indisturbata in una società meno allertata di oggi, sulla delinquenza e i rischi che si correvano; l’avvocato di Alfano, il principe del foro Raffaele Della Valle, dichiarerà che purtroppo il principio della condanna “ oltre ogni ragionevole dubbio” non era ancora consolidato come avverrà in futuro.
Davvero oggi tale caposaldo è rispettato?