Abbiamo esposto i tratti di una visione del mondo che potremmo definire romano-italiana. C'è la Legge di Dio (il fas) che secondo noi è simboleggiata dal Tricolore; e c'è il ius (diritto) che è la Legge umana. Queste due leggi esprimono rispettivamente il piano ontologico dell'Essere e il piano del Divenire che è sostanzialmente storico. Questa visione è avvicinabile a quella greca del V sec. A.C. (l'età dei sofisti), dove campeggiano, sempre in ambito giuridico, i sostantivi physis o natura e nomos o convenzione, che rappresentano del pari il primo l'Essere, il secondo il Divenire.  Nelle fonti giuridiche romane il termine "natura" non è usato in modo univoco, ma ora come "essenza", ora come "conformazione economico-sociale", o "modo di essere", oppure "normalità", "regolarità" o "essenza". Premettiamo che, secondo l'Albanese, i giuristi romani erano anche cultori di scienze naturali.

La natura è per i giuristi Romani la "realtà", che si estende anche al di fuori del diritto naturale per comprendere quello positivo. Ciò non deve destare meraviglia. Il ius naturale è inteso da essi come il primo nucleo "normativo" che l'umanità ha in comune con gli altri esseri viventi. Ma è naturale anche il diritto positivo, quello storico, creato dall'uomo, perché a ben vedere, esso discende dalla stessa natura umana, come dice Cicerone. Nei testi dei giuristi classici troviamo spessissimo riferimenti alla natura. Troviamo espressioni quali "lex naturalis", "natura contractus", "natura actionis", "ius naturae", "ratio naturalis", "naturaliter" e "natura rerum" che indica, nel lessico dei giuristi, il mondo nella sua potenzialità creatrice di beni e frutti utilizzabili dagli uomini. Certamente c'è una sovrapposizione di piani, dal fisico al sociale. Una cosa è parlare di "natura montis" o di "natura fluminis", altra di "natura contractus" che indica la funzione giuridico-sociale di un qualsivoglia accordo.

Ma il termine "natura" sembra usato dai giuristi come comprendente qualsiasi realtà fisica e sociale, sempre, beninteso, dal punto di vista giuridico. Ma come possiamo rapportare il pensiero romano-italiano col pensiero delle altre Nazioni ? Fermo restando che qui non si vuole assolutamente elaborare una strategia di superiorità culturale, possiamo dire che questo pensiero è sintetico e non analitico. E' una sintesi del reale, semplice ed immediatamente comprensibile, laddove altri popoli e tradizioni si sono avventurati in una spiegazione troppo complessa e ridondante del rapporto tra dio e l'uomo.

Pensiamo alla Cabala ebraica, alla mitologia indù o a parte rilevante delle stesse dottrine esoteriche. Anche la scienza sperimentale e teorica occidentale, con le sue sterminate analisi, sembra incapace di offrire una spiegazione convincente della realtà. Non parliamo poi della filosofia. Nel mondo greco, forse sono i presocratici ad investigare con maggior successo i segreti della natura: e infatti Parmenide è il filosofo dell'Essere, Eraclito del Divenire. Buona parte della filosofia greca, da Platone ad Aristotele, è accademica ed offre materia di infinite disquisizioni a turbe di pedanti. La filosofia europea da Cartesio in poi (pensiamo a Spencer, maestro del positivismo), scopre il "sistema", ma la realtà non è sistematica, come, in campo morale, spiega il nostro Ardigò. Anche i grandi sistemi dell'idealismo e del kantismo sono involuti e complicati, mentre, in ambito anglosassone, prevale un volgare utilitarismo e pragmatismo.

Il fas e lo ius sono invece concetti che spiegano il reale in modo evidente e senza troppe parole: l'uno è la dialettica fra gli opposti; l'altro è l'utile che spetta all'uomo, ma consacrato sul piano divino (do ut des). Il "sistema" filosofico romano si fonda su questi due pilastri, ed è unico, non diviso cioè in scuole e sette come avviene per i Greci e molti altri popoli antichi e moderni. Semmai interminabili dispute si hanno sul terreno prettamente giuridico, data la strutturale natura "controversa" del diritto elaborato dalla giurisprudenza classica. Ancora un cenno sulla dialettica tra "ius publicum" e "ius privatum": col tempo prevalse la diade natura-privato su quella Dio-popolo che stava a base del diritto pubblico in età repubblicana. Con l'Impero si assiste ad una sorta di privatizzazione del diritto pubblico, perché il Principe veniva considerato come un privato investito di poteri pubblici; e di tipo privatistico sono infatti le relazioni che egli intratteneva con i suoi funzionari. 

Purtroppo, l'estrema ricchezza del diritto romano antico, diviso in humanum e divinum, l'uno disciplinante i rapporti tra gli uomini, l'altro i rapporti fra gli Dei e gli uomini, è stata travolta dalle guerre civili, determinate dall'enorme afflusso di ricchezza in Roma in seguito alle vittorie trasmarine e dalla corse sfrenata per accaparrarsele. Certo i Romani, non tutti però, erano uomini venali e propensi alla violenza: hanno creato un sistema schiavistico che aveva aspetti tremendi. Ma è sempre Roma che insegna, nel bene come nel male.