TACCUINO #68
Si sazian come bestie e mentre lo fanno pensano di saziarsi come bestie.
E nel pensarlo, si conferman bestie due volte: una nella materia, l’altra nell’illusione di averla superata.
I più non vivono e vanno a pensar di vivere.
«A me la vita è male». Soleva metter fuoco nero su fuoco bianco il tale.
Quindi, due scuole diverse? Forse nell'etichetta, ma nel nucleo profondo, non poi così distanti.
Contrapposizioni. Ecco lo stoicismo, ed ecco l'epicureismo. Si divide spesso perché tutto è ingigantito da tradizione, ma se si scava oltre, e prima, nella sostanza, emergono sorprendenti affinità. Si posson dipinger come opposti? Stoici, guidati dalla ragione e dal dominio delle passioni. Ma noi siam epicurei! Orientati al piacere e alla fuga dal dolore. Sei questo? Siete questo?
Ma questa è una semplificazione.
Entrambi, infatti, mirate alla liberazione dal turbamento, la vostra atarassia, e a una forma di autosufficienza esistenziale, la vostra autarchia. Entrambi vedete la realtà come governata da leggi naturali, rifiutando le superstizioni e il timore degli dèi, e cercando una vita condotta secondo natura. La differenza è più metodologica che teleologica: voi stoici accettate il dolore come parte della razionalità cosmica, mentre voi epicurei lo evitate, ritenendo che il piacere stabile - la vostra aponia, l'assenza di dolore - sia la condizione ottimale dell’essere.
Ma se si guarda oltre le etichette, gli uni e gli altri affermate che l’uomo deve spezzare il dominio delle passioni, vincere la paura della morte e vivere secondo una comprensione razionale della realtà. Entrambi costruite una fortezza interiore contro l’insensatezza del mondo. Il tal Leopardi stava inseguendo il cammin tracciato, già decostruendo ogni illusione sulla felicità, e qui voi stoici e voi epicurei vi incontrate ancora: se l’esistenza è dolore, allora la saggezza sta nel comprendere il limite e ridurre la sofferenza.
Dite, avete compreso il limite?
Come dite? Oggi? Oggi stoici e epicurei sono il modello di soldato della finanza? Il guru dell'economia? Il manager che nuota in vasca alle ore 06:00, spera tutto vada bene giacché se il titolo crolla è male, e finalmente può concedersi il lusso del suo spazio privato di stabilità dalle 18:00 perché: «È grazie alla disponibilità di sostanze psicoattive che non crollo! Come sono fortunato!».
Ma tu sei stoico!
Lo sei?
D'accordo.
E che dir de Homo sum, humani nihil a me alienum puto, che s'inquina della tradotta forma di solidarietà universale, un richiamo all’empatia e alla comprensione del comune destino umano?
Se si adotta una lente più critica e filosofica, emerge che l'universalità del pensiero umano non può essere vincolata al semplice concetto di empatia o comprensione delle debolezze. L’interpretazione classica, pur lodevole per il suo intento di superare i confini della separazione, assume una visione moralistica che potrebbe risultare riduttiva.
Se pensiamo alla connessione tra "essere umano" e "umano", è evidente che essa fondi anche sulla sofferenza e la condizione di vulnerabilità, ma questi concetti possono facilmente tramutarsi in strumentalizzazioni che, più che unire, rafforzano le dicotomie. Il legame interspecie, ad esempio, non è privo di tensioni: l'umanità non si limita a condividere il dolore, ma si confronta con la propria superbia, con l'auto-imposizione di gerarchie e il rifiuto del non-essere.
Il "narcisista", il "non ente", o il "mostro" non fanno parte di un processo di esclusione di tale solidarietà. In realtà, essi rappresentano figure che forse, in modo perturbante, rivelano un aspetto crudo della condizione umana, al di là della consueta estetica morale. L'autosufficienza narcisistica, il non-essere e il mostruoso possono essere visti come risposte a una società che nega l’ambiguità esistenziale, quella che va oltre la semplice "comprensione" di debolezze o la ricerca di legami.
Così la nostra carnefice non vive. Il suo espiro è mera apparenza. Così i più non vivono questa maschera che chiaman vita.
La vita fa schifo, e poi si muore. Il tempo? Il tempo, più che breve.
«Ecco perchè è categorico assaporare ogni istante! Sentirlo dentro, concretizzarlo, aderire al reale. Ecco perchè il panorama della nana bianca, dell'amoeba che si separa negandosi non può per mancanza di essere, mancanza di vita, ricchezza di debolezza e aberrazione genetica, partecipazione di idola, svilimento del sangue, putrefazione del mortal respiro!».
La riflessione, quindi, suggerisce che l’umano non è il mero punto di unione nella sofferenza, ma un incrocio di mille potenzialità, contraddizioni e anacronismi, un flusso che attraversa una gamma complessa di relazioni. L’affermazione del tal Terenzio, pur nella sua bellezza, necessita di un aggiornamento che trascenda la retorica della solidarietà, per abbracciare l’inconscio e l’ambiguità di ciò che si è nel suo insieme, inclusi i "mostri" che per taluni non sono da disprezzare, ma da comprendere.
Psicologia? Psicologi? Criminologia, criminologi? Funzionari di stato corrotti? Parole? Frasi? Azioni, più di mille parole. Falsi! Ipocriti!
Le parole non esistono.
L'"alieno" non è solo ciò che è diverso, ma ciò che è pericolosamente estraneo alla natura autentica dell’essere, come un lato oscuro che minaccia di contaminare l'integrità stessa di ciò che percepiamo come "umano". Homo sum, humani nihil a me alienum puto, pur suggerendo una connessione universale, non contempla la necessità di difendersi da ciò che può danneggiare, distorcere o pervertire. I "mostri" non sono solo rappresentazioni estetiche di violenza o crudeltà, ma incarnazioni di ciò che, nel profondo, l’essere umano rifiuta e teme di diventare (?).
Disprezzare il mostro, in questa luce, diventa un atto necessario di preservazione, una forma di "autodifesa" viscerale, una reazione alla minaccia che questo aspetto della natura, tra le differenti nature per linea di sangue, possono rappresentare per la nostra essenza più pura. L’inquietudine che i mostri suscitano è legata a un meccanismo istintivo che ci spinge a mettere in guardia la nostra psiche, allontanandoci dalle radici più oscure del nostro essere. Se l’inconscio custodisce questi mostri, il disprezzo diventa una forma di protezione dalla corruzione di ciò che potrebbe minare la nostra autenticità, il nostro "sentire viscerale".
L’idea di "cacciare" il mostro, di rifiutarlo, è un atto di ripulitura interiore. Si tratta di tenere a bada quella parte che potrebbe corrompere la nostra continuità, come un virus che minaccia di alterare il corpo stesso della nostra percezione. La memoria non è soltanto un archivio di esperienze, ma un meccanismo di protezione che, pur riconoscendo la nostra natura "mostruosa" (ma, se volete, partecipante de la "meraviglia"), non cede a essa, ma la rinnega come parte di noi stessi.
Ci siam permessi "meraviglia" in luogo di "mostruosa" a beneficio di quei tali che leggendo (volendo sostitutire) apprezzeranno quel che muta e non muta con più grazia: lo stesso suono sordo de l'abissal significato che indossa maschera. Ma facciam così melodiar in superficie una più dolce aria. Ah! Che bello!
Bestia. Umana è unica specie che utilizza bestia per indicare specie altre.
Il cosiddetto umano non è certo in pericolo. È il pericolo.
In questo senso, l'incontro con il mostro non è mai neutro: non si tratta di una dialettica di accettazione o comprensione, ma di una distanza viscerale che preserva ciò che può essere conservato, mantenendo al contempo viva la consapevolezza che quel mostro, con il suo peso e la sua forza, potrebbe sempre ritorcersi contro di noi. L’abisso non è solo un luogo lontano; è dentro di noi, e il disprezzo è l’arma con cui ne neutralizziamo la potenzialità di distruzione.
"Il Salone delle Ombre"
Nel cuore di una città sospesa nel tempo, dove i cieli si intrecciano come fili di seta nera e le nuvole sono tessuti sottili di luce fredda, si trova un’antica sala. Il Salone delle Ombre, è un luogo di polvere e riflessi distorti, dove il passato e il futuro si mescolano in un’infinita danza di ricordi e presagi. Le pareti sono foderate di velluto oscuro, con specchi che non riflettono mai la verità, ma solo la distorsione di ciò che l’occhio non vuole vedere. L’aria è immobile, densa di silenzi che non sono mai vuoti, ma pieni di una presenza invisibile. E lì, nel centro della sala, si trovano tre figure.
Ipazia: Un uomo alto, con il volto scolpito da una forza che sembra venire da un altro secolo. I suoi occhi sono due fessure nell’oscurità, penetranti, quasi sovrumani. Il suo abito è di un grigio spento, ruvido, ma perfettamente tagliato, come se la sua stessa pelle fosse fatta di un tessuto più resistente di qualsiasi materiale conosciuto. La sua postura è rigida, come se il corpo fosse ancora in attesa di un comando che non arriva mai. Intorno a lui, un’aura di gravità, come se ogni parola avesse il peso di un mondo che si frantuma.
Rabelais: Una figura eterea, più una visione che una presenza concreta. I suoi capelli sembrano riflettere la luce di una luna invisibile, ondeggiando delicatamente come acqua in una sorgente profonda. Indossa una veste nera che pare confondersi con l’ombra stessa, come se fosse stata tessuta con il buio stesso. I suoi occhi, però, sono di un bianco puro, incapaci di riflettere il mondo, ma in grado di abbracciarlo completamente. Lei non è del tutto umana, non del tutto spirito. È ciò che resta quando la realtà si dissolve in polvere.
Báthory: Una figura senza contorni definiti, oscillante, la cui forma sembra mutare a ogni sguardo. La sua pelle è un mosaico di crepe e cicatrici, come se fosse stato plasmato e ripetutamente distrutto, ma mai completamente annientato. I suoi occhi sono visibili solo per un istante, e sembrano racchiudere dentro di sé un abisso senza fine, una profondità che non può essere sondato senza perdere se stessi. La sua voce è un sussurro e un ruggito, un eco che invade ogni angolo della mente.
Ipazia: (guardando intensamente Báthory ) «Tu non appartieni a questa dimensione, non appartieni a nulla che sia comprensibile. Tu sei ciò che noi rifiutiamo!».
Rabelais: (in tono mellifluo, ma con una sfumatura di complicità) «Rifiutare, Ipazia... Ma cosa rifiutiamo davvero? Non è forse la paura di guardare dentro di noi?».
Báthory: (la sua voce è un suono distorto, come una melodia che si spezza e ricomincia) «Avete paura di me perché rifletto la parte che voi stessi volete soffocare. Sono ciò che dimenticate, ciò che seppellite nel profondo. Ma io non sono solo paura; sono il vostro volto se non vi riconoscete più».
Ipazia: (accennando un sorriso, ma senza distogliere lo sguardo) «Il tuo viso è solo una maschera, un abisso che non vogliamo mai esplorare. La nostra forza risiede nel non guardarti. In questo silenzio, tu sei già stata condannata».
Rabelais: (si avvicina a Báthory, il suo corpo sembra quasi fondersi con l’ombra che lo circonda) «Ipazia... tu parli di condanna come se ci fosse una fine. Ma la fine non è mai ciò che ci fa paura. È l’eternità del ricordo che rimane. Non è forse questo il nostro vero mostro? Quello che ci trascina senza che ce ne accorgiamo, che ci cambia senza che ne comprendiamo il senso?».
Báthory: (emette una risata che riecheggia nel salone come un urlo soffocato) «Ecco. Parlate di silenzi, di ciò che non può essere detto. Ma sono proprio le parole che non potete pronunciare a rendervi schiavi. Io non sono eterno, ma la mia forma si ripeterà nei vostri sogni, nei vostri occhi che guardano il nulla. È il vero volto del tempo, quello che non può essere dimenticato».
Ipazia: (guardando Báthory con disprezzo) «Ecco, il tuo discorso è solo fumo. Il tempo non ha volto. È il nostro corpo che lo scolpisce. Noi distruggiamo ciò che non possiamo accettare. E tu, mostro, sei solo il nostro rifiuto travestito».
Rabelais: (sospirando, come se stesse considerando una verità più profonda) «Il rifiuto è ancora parte della rimozione, Ipazia. Perché nascondiamo ciò che siamo, finché non ci scivola via dalle mani? Non è forse la negazione che ci fa diventare ciò che temiamo di più?».
Báthory: «Vedete? La lotta è già persa. L'ombra non può fuggire, perché è radicata in voi. Ecco perché mi temete. Io sono l'ombra che non potete scacciare».
Ipazia: (chiudendo gli occhi per un attimo, come se stesse assaporando la verità che gli è appena stata sussurrata) «No. Non possiamo permetterlo. Non possiamo permettere che il mostro diventi la nostra verità. La nostra forza sta nell’essere ciò che non siamo. Nella lotta contro ciò che ci definisce».
Rabelais: (osservando la scena con un sorriso triste, quasi come se avesse già visto tutto ciò che stava per accadere) «La lotta è una forma di accordo, non di vittoria. Il mostro è già dentro di voi, nella violenza di ogni resistenza. Ma forse è questo che vi fa vivere, Ipazia... Forse è questa eterna opposizione che vi rende umani».
E mentre le loro parole si perdono nell’aria greve, l’ambiente stesso sembra deformarsi. Le ombre si allungano, come braccia che cercano di afferrare qualcosa che non esiste più, ma che non può mai essere dimenticato. La lotta tra i tre non è mai conclusa, ma continua a riflettersi nelle profondità di quelle pareti che non raccontano altro che il silenzio.
Ipazia: «Ricordate? Sileno è l'ubriaco saggio, il demone del riso sgraziato, il depositario di una verità insopportabile: che la cosa migliore è non essere mai nati. È l’ombra sgangherata di Dioniso, il servo che eccede il padrone, la carne che si decompone e ride di sé stessa. È la sapienza che trabocca nell'orrore. Chi può essergli paragonato? Il tal . . .
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