Alla società del “performare” va posto un quesito semplice: «Ma perché, l’uomo performa male?». Immagino che ne nascerebbe un dialogo simile a quello tra Padre Pedro, interpretato dal grande Bud Spencer nella vecchia america coloniale, e gli inglesi della corona. «Dio salvi la Regina!», solevan dire. «Perché, sta male?», domandava Padre Pedro. «No!», rispondevano gli inglesi. «Allora che bisogno c’è di scomodare Dio?!», incalzava Padre Pedro impettito (dal film: “Porgi l’altra guancia”, 1974).

Fedele a questo esilarante e disarmante dialogo, alla domanda iniziale a me verrebbe infine da rispondere: «E allora che bisogno c’è di esortare l’uomo a performare?!».

E’ un dato storico: l’uomo performa egregiamente, come deve; ciascuno a modo suo e con i suoi tempi. E avrebbe tirato avanti questa baracca sino a oggi con il ben di Dio che egli stesso si gode (o potrebbe godersi), grazie all’innata operosità che lo fa progredire. Ce l’ha nel sangue. Sta sotto un albero e gli casca una mela in testa, e senza che nessuno glielo chieda inizia a parlare di gravità. Oppure, facendo fatica a trascinare cose, immagina qualcosa di tondeggiante e sempre senza che nessuno glielo chieda costruisce la ruota.

L’uomo fa cose. E non può farne a meno.

Quando la vita inizia a girargli male sa anche alterarsi, si alza dal divano e va a fare la guerra ai propri aguzzini. Ciascuno l’inventa a modo suo: alcuni lo fanno con violenza, altri con compassione. Divagando tra millenni e intere ere della sua esistenza non risulta che nessuno abbia mai subito angherie e ingiustizie all’infinito.

La storia è storia.

Se fosse cambiato qualcosa, se l’uomo fosse diventato improvvisamente apatico e indolente, trascurando le momentanee (e comprensibili) vicissitudini, qualcuno lo dica. Mostri dei dati, degli studi, degli elementi che dimostrino che l’uomo oggi deve essere spronato a performare. Magari anche se, e come, potrebbero performare tutti e 7 miliardi di abitanti su questo pianeta.

Sappiamo cosa voglia dire realmente questo “performare”. Esso cela tre atteggiamenti obbligatori per ciascun individuo: resistenza, sacrificio, eccellenza. Si può performare in uno solo di essi, ma facendolo in tutti e tre si acquisisce anche il titolo di eroi! A scuola o sul lavoro.

E’ sempre stato così, ed è sempre stato un male. Il performare moderno si distingue da quello più antico solo perché oggi lo si vuol rendere normale, la cosa più ovvia e naturale possibile, nel disperato tentativo di rimodellare la natura umana che si è sempre ribellata a questa eredità animale. Si prova a fare dell’uomo non solo un purosangue per la propria scuderia, ma anche un purosangue docile. La nuova “normalità”, dunque. Quella dove nessuno vale nulla se non risponde a quest’appello; se non ce la fa o ha tempi diversi. Verrebbe inviato in macelleria performando nell’ultimo sacrificio di essere utile almeno come succulento alimento equino, di cui l’Italia è ghiotta consumatrice.

Attorno al purosangue docile è stato edificato anche il concetto di “meritocrazia”, che ha ipocritamente mutuato la logica del privilegio sotto le mentite spoglie del merito. Chiamandolo così nessuno avrà nulla da ridire. Meritevoli dei privilegi riservati a docili purosangue che così adombreranno i privilegi di altri purosangue per diritto di nascita (i mai svaniti nepotismi).

O performi o muori (se non passi quel test, quell’esame, il lavoro giusto al momento giusto) è il rapporto simmetrico tra la coscienza umana a quella animale, dalla quale non si sarebbe mai riscattata. Il cucciolo di gazzella ferito che diventa facile preda, poiché non più in grado di mantenere il ritmo del branco; la tigre malata che non riesce più a cacciare, e perciò morirà di fame; lo stesso purosangue arabo o inglese che diventa un brocco per qualunque ragione, finendo il suo destino come ben ci è noto. Logiche e coscienze accettate nel selvaggio e impietoso regno animale.

Ma questa “nuova” normalità incalza e fa nascere perfino nuove professioni, ormai a cavallo di due secoli: i motivatori di crescita personale e aziendale. Altrimenti conosciuti come “life coach”, “counselor”, “growth coach”, e roba del genere. Spesso senza arte né parte stravolgono ogni più elementare concetto filosofico, etico, psicologico e piscoterapeutico. Oggi anche in bacheche social stracolme di gente poco più che ventenne, latori dell’esperienza di almeno una vita precedente (evidentemente…), che stravolge i mantra più antichi privandoli dell’aura di saggezza che essi avrebbero: «Un vincente trova sempre una strada; un perdente trova sempre una scusa».

Stravolgimenti assai efficaci, però.

Hanno rafforzato l’antichissimo verbo del «si è sempre fatto così», ossia la frase più illogica, pericolosa e odiosa che denunciò anche una mia vecchia e famosa collega (mi onoro di chiamarla così), Grace Murray Hopper, proprio per dare risalto alla portata irrazionale e devastante di un tale pensiero per la natura e l’evoluzione umana.

E allora continuiamo a farlo. Accentuiamo, anzi, questa corsa ad ostacoli per eccellere, se si riesce, resistendo a tutti gli impatti psicologici e fisiologici, con spirito di sacrificio e abnegazione totali. Fino alle estreme conseguenze. L’uomo è l’animale siano identici; il debole perisca in entrambi i mondi.

Lo sanno anche molti genitori che “così è sempre stato”, e se oggi si normalizza non bisogna scandalizzarsi. Me lo ricordavano proprio ieri in alcune repliche a un mio commento. Uno diceva orgogliosamente: «I miei figli sono cresciuti a Sparta facendo le vacanze ad Atene», dei veri guerrieri, insomma. E un’altra si associava: «Anche i miei. E non sono morti, anzi. Sanno cavarsela in ogni situazione senza piangersi addosso. Magari è ora di ricordare a questi fenomeni che la vita è soprattutto fatica». E i fenomeni erano quelli come Alessandra De Fazio, l’ennesima studentessa universitaria, presidente del consiglio di UniFe, che denunciava parte di quanto argomentato.

“Ricordare a questi fenomeni che la vita è soprattutto fatica”. Questo, dunque, pensa molta gente. Non si chiedono il perché; lo pensano e basta. Non riescono a vedere che non ci sarebbe bisogno di affannarsi per non essere sopraffatti, se nessuno si affannasse in corse! Osservandolo, avrebbero perlomeno la consapevolezza di vivere semplicemente come animali. Come docili purosangue.

Cari amici, andiamo avanti così?

Potremmo, invero, affrancarci dal selvaggio regno animale, in qualunque momento lo volessimo.



📸 base foto: “I grandi cavalli blu”, 1911, Franz Marc - Pubblico dominio