La radice di un pensiero è fondamentale per inquadrarlo nel verso giusto.
Mi sono imbattuto in un articolo che rievocava la “censura” di Umberto Galimberti al famoso romanzo dei “Promessi Sposi”. A suo dire, il tema della “provvidenza” che vi aleggia, e a cui il Manzoni affidava la sua narrazione, rischia di mettere fuori strada i nostri liceali creando scenari illusori nelle loro giovani menti. Mentre invece - ritiene lo psicologo - è necessario parlare di realtà e pieno controllo degli eventi che l'individuo produce dal suo esclusivo agire, piuttosto che per causa di un disegno superiore.
Beninteso, Galimberti non ha mai mancato di definire il romanzo del Manzoni come un grande pezzo della nostra letteratura: bellissimo e scritto in maniera folgorante. Ma, appunto, avrebbe questo difetto di essere un po' troppo mistico e sviare i ragazzi.
Ma cosa teme esattamente Galimberti?
Nulla che meriti davvero di essere discusso. Va semplicemente liquidato come “pensiero infelice” e manifestamente superficiale.
E' un giudizio impietoso, me ne rendo conto. Specie da un alunno errante come il sottoscritto nei confronti di un personaggio del calibro di Galimberti. Ma questo è solo un esempio per aiutarci a ragionare nell'inquadrare esattamente un pensiero, valorizzarlo, fornirgli un contesto a cui talvolta non provvede nemmeno il suo autore. Ed è quello che mi accingo a fare ora.
Io stimo molto Galimberti, e peraltro lo cito spesso. Ma, come noi tutti, lui appartiene al genere umano. E l'uomo, semplicemente, è fallibile.
Noi spesso commettiamo un altro errore, un grande errore: mitizziamo i nostri simili. Succede perché deleghiamo di continuo il pensiero a coloro che reputiamo degni di essere ascoltati e seguiti. Sempre e in ogni caso.
E dimentichiamo, con altrettanta frequenza, che il titolo di "esperto" in qualcosa è oggi un percorso che non incontra quasi mai il merito, ma logiche di altro tipo. Questo ovviamente non riguarda Galimberti ma è una constatazione - imprescindibile - dei nostri tempi.
Dovremmo semplicemente impegnarci di più. Formarci culturalmente in maniera autonoma; essere attenti osservatori e onesti critici, evitando di eleggere "esperti" in special modo nella cultura. Non esistono maestri in questa materia; l'archetipo della filosofia, in Socrate, ha provato a spiegarcelo in tutti i modi. E da lui ogni altro filosofo della storia remota e contemporanea.
Non è dunque necessario perderci in complicate disquisizioni per analizzare il giudizio impietoso di Galimberti sui Promessi Sposi, anche perché finiremmo per conferire un indiretto pregio a qualcosa che non ha vera sostanza. E quando peraltro non è l'ignoranza ad aver governato quel giudizio, ma è l'opinione di uno stimato intellettuale, è sufficiente accertare il valore dell'elemento criticato e determinare il contesto più probabile che ha scatenato la critica stessa.
Troveremo che si tratta di un pensiero palesemente fuoriuscito dal contesto ateista molto caro a Galimberti, e può essere sufficiente confinarlo a questo: un intellettuale che professa esageratamente il proprio ateismo quasi, se fosse consentito, iperrealista.
Così finisce con l'annichilire l'intero universo culturale e formativo che, al netto della “provvidenza”, gravita attorno al romanzo dei Promessi Sposi.
Si, diceva anche che era un gran letteratura… ma auspica comunque che rimanga ben chiuso nello scaffale per non confondere quei teneri virgulti ginnasiali.
In un'epoca dove si discute seriamente di “Cancel Culture” (ed è già quanto dire), non possiamo di tanto in tanto non ricordare certe prese di posizione che ne alimentano l'esistenza.
Base foto: ritratto di Alessandro Manzoni di Francesco Hayez, Public domain, via Wikimedia Commons