TACCUINO #13

Nell’immaginario comune formato in collettiva psicosi dell’uomo liquido in massa, in totale partecipazione del racconto di racconti all’interno del sociale, favorito dalle società, si formano divinità, nazioni, monete, diritti umani, leggi, giustizia: politica. Sono queste illusioni che si concretizzano per controllo e assumo convenzione.

La suggestionabilità muove al contagio nelle masse. L’individuo singolo deve fare i conti con il sociale, ovvero i propri pensieri, ma è con la società che avviene il salto e pervengono nuove difficoltà che si acutizzano con la modificazione di pensiero.

Il concretizzarsi delle illusioni farà apparire la via fittizia, e la chiameremo realtà.

L’uomo liquido crede, si fida, interpreta. Consiglia, suggerisce. Partecipa al danno dell’essere, ebbro e mai sazio dello sfavorevole prodotto autoinganno. Deve soddisfare un bisogno che pensa di avere. Il perdersi in quel che veramente si è sarebbe un ritrovarsi, ma l’essere spaventa.

«L’uomo è morto!».

Ogni espressione del valente vivente vedente lo grida a gran voce. Si sente il reboante frastuono che pulsa grondante sangue ancora vero, residuo dell’ultima antica libagione, il nato tra i liquidi che ricorda la purezza del primo legnaggio.

È saldo alla presenza di colui che incarna il deludente che al più non può qualificarsi mezzo uomo, soddisfatto del suo unico poter minaccioso della desiderata morte altrui, quasi vedesse Robespierre. Il paragone all’ultimo brigante assoldato dall’organizzazione più villana e scalcagnata non reggerebbe, giacché si tratterebbe di sin troppo alto raffronto.

Ecco l’innesco, il narcisista è in caccia e si ciba del sangue che muore gli strati comuni dell’inurbano. Tutto quel che è illusione cattura il perverso al pari di un debole stratino fangoso che par luccicare all’interno di una stanza d’oro. Confuso per energia cosmica, riflette l’infinito dolore della costruita falsa noiosa borghesuccia realtà, che ad ogni nuovo sole si disseta di putrida voglia, sleale con il proprio essere. Qui l’arguto rimembra: «È sciocco amare donne, non è degno di gente come noi, lasciamolo fare ai borghesucci che vogliono avere figli».

Ecco il pensar di volere che soffoca la volontà. Non vi è più potenza.

«L’uomo è morto!», ripete il vedente nelle strade, nella piazza teatro del crimine, ma nessuno sente, i morti non ascoltano, i deboli odiano i vetri di una scatola in ferro su ruote e si lanciano nella più misera viltà dopo l’arco. Si respira decadimento e finitudine. Qui si grida: «Non ha buon senso! Non ha buona direzione! Perché fate questo?».

Il vedente se ne va, inorridito dal marciume osservato, dal disprezzo per la vita dimostrato da chi non è caduto nel mondo per fare il bene, dalla minaccia alla giustizia naturale, dall’inganno di mondi nel mondo.

Mancano forza, vitalità, coraggio, ardore, il fuoco dell’essere che purifica l’esistere, la volontà di potenza del crearsi generato, l’ineluttabilità energetica che irrompe nel correttamente formato, che gode la vittoria del tempo molto lungo, all’interno del riconosciuto spazio ove sublima l’attimo e arde l’opposizione dello spreco odierno, ben disgustato da quell’orribile piccolo sgorbio finto fermo fiammeggiante intriso di sbavati rosso e giallo, carichi di vergogna e noiosa sterile follia.

Quando si fa esperienza di tutti i limiti del male si vive piena conoscenza di terrore, orrore, angoscia. Il perturbante. È solo così che si può osservare l’automa, il non vivente.

Un ancoraggio all’esperienza mi stabilizza proprio quando il terreno sembra tremare. Abbiamo iniziato il cammino in un luogo che si disegna delle profondità dell’indicibile intimo essere, per trovare il truce, l’assenza di vita biologica, il rappresentante non familiare. Ora immaginiamo di sedere su un mondo senza tepore, senza unione, senza capacità di vedere, in dissociazione prima, partecipante di mutamento senza sviluppo, di aridità, di scioglimento, di continua assenza di qualità, di morte. Benvenuti nel mondo vivo di disintegrazione, perdita, abbandono, povertà, inutilità dell’essere. Siete giunti nel Permiano Triassico, l’unico regno esperito dal narcisista perverso, il cosiddetto maligno, che nulla può, in quanto nulla è dell’esistere, se non il manovratore dedito all’estinzione in massa a più riprese, e chi muove una velocità improba in direzione di ogni qualsicosa abbia il piacere (e la sfortuna) di collidere.

Abbiamo favorito in passato appositivi, consapevoli del disgusto provato per l’evidente utilizzo di determinativi, ma di necessità sviluppatori di linguaggio che come frutto, maturi lo stadio più prossimo alla forma d’essere perfetta. Ironico, dato il fatto che si discute dell’imperfezione cellulare, dell’insufficienza d’esempio non ben formato. Riportiamoci ora, quindi, a: criminale massimo dell’umanità. L’ultimo taccuino si è chiuso su perverso e maligno.

Favoriamo definizioni che aiutino nel processo di inquadramento della personalità più altamente noiosa e al pari pericolosa per la specie cosiddetta umana. Nocivo, tossico, pericoloso, letale, sleale, sfavorevole, svantaggioso, avverso, pernicioso, funesto, malefico, nefasto, infausto.

Pernicioso. Dal latino: perniciòsus, da pernícies, ruina, perdita; il dare intesa (attraverso, attraversare) a nícies, e da qui nex morte e necàre, uccidere, che muove a necrosi.

Maligno. Dal francese: malin, maligne. Dal latino: malìgnus, attraverso malígenus, composto di malum, male (anche melo) e géno, generare, da genere. Che genera il male, che ha natural disposizione a mal fare, che del mal fare si compiace. Attribuito anche, erroneamente, a malattia, infezione, accadimento mortale. Qui sostengo sia errato parlare di malattia quando in essere la forma atomica cellulare si concepisce in insufficienza. La malattia prevede un decorso sull’innesco di un’alterazione organico funzionale, che rende anormale la condizione di un organismo in relazione ad un precedente. Sostengo, quindi, non si debba far l’errore sulla considerazione di un evento scatenante per seguitar l’indagine della perversa e malevola personalità narcisistica. Riprendo… Malignità differisce da Malizia e da Malvagità. La prima è perversa inclinazione d’essere per propria natura a nuocere. La seconda è occulto e simulato pensamento all’altrui danno. Si evince, sulla mia congettura che descriverebbe il fenomeno del pensiero originato dalla mente a motivo di vorticosità d’aria e sangue sulla spinta informativa dei dati ancestrali contenuti nei neuroni cardiaci, la natura delle cellule in forma uomo e i possibili inganni in tema caratteri. Sulla differenza personalità e carattere torneremo. la terza ed ultima succitata riferisce alle male e criminose azioni. Si legge su dizionari etimologici: […] onde la malizia dipende dalla mente, la malignità dal cuore, e la malvagità dalle azioni […]. Sostengo sia bene usar prudenza, perocché il tentativo di far scivolare in asserzione una teoria, potrebbe donare falsa certezza. Tuttavia, un filo conduttore che lega saldamente esperienza osservata e ipotesi, collima con l’intuizione e lo sviluppo dello studio. Criticando sempre aspramente credenza, fiducia, convinzione (covo di serpi quanto l’ovvietà), è bene ivi dichiarare che si renderà sempre necessario combattere e far tacere sotto la polvere tutto il mio apporto, qualora non servisse, non aiutasse, non corrispondesse al vero, non avesse buon futuro, non facesse scientifica luce sull’animaletto parlante.

Il vocabolo precedente trattato non merita da me serie battute per riportar collegamenti a persone e luoghi ove, all’interno di fantasiosi illusori immaginari umani, in molti si sono spinti a trattar di Diavolo, Spirito del male, e altri. È di mio più alto interesse lo studio filologico che muove su separare concretamente realtà e descrive azioni, scevre da alucce e fiamme più o meno variopinte. Mi limito, tra molto materiale, all’interessante termine celtico malan, che sempre designa quel che per antonomasia è maligno. Il March Malaen corre attraverso racconti ed è incalzante il voler approfondire su radici che ben bene nascondono il rizoma che vado a cercare nella nebbia, ma dovrò abbandonar per tempo l’analisi del mare simbolico, di cavallo e toro, della dea Andarta, di Marte, marzo, delle vecchie storie che scuotono in me la viva curiosità che ben sempre si poggia sugli aspetti consonantici e aprono alle linee di sangue che muovono a comportamento. Debbo tornar sulla piaga.

Malvascio. Un provinciale malvais, partecipa di processi di struttura mutando in malvatz. Il francese riporta manvais e malvé, cattivo. In antichità: malvazo. Il latino: malvàsius, malvàggius, di singolare derivazione da màle — levàtus, male allevato, male avvezzo. Su allevato, addomesticato, domesticato, cullato, fatto crescere, si potrà pensare al genitore che favorisce un continuum attraverso bimbo o bimbetta. Sempre interessante lo studio genetico sulle commistioni tra linee sanguinee. Lo spagnolo malvado, il catalano malvad. Ancora sull’uso di consuetudini provinciali: malvat e malfat. Il malfatto italiano si sovrappone perfettamente alla personal congettura; dimostrerebbe il dire di un cattivo processo biologico. Male — vàtius, mal piegato, storto, malvàceus, molle, fiacco, da balvàsi, di probabile origine tedesca e da palwas e, ancora, dall’anglosassone balowiso. La forma gotica astratta balvavêsei rifà a cattiveria, malizia. Balo ha senso di nuocere. Ancora l’antico sassone balu è pernicioso, e come sostantivo male, rovina. Lo scandinavo böl è calamità. In futuro non escludo il solcar una via da Baal, sull’accadico Bēlu, che porta però a “Signore”. Sulla citata forma gotica, wesen è essere. La fonologia porta il germanico balvàsi di formazione per avvicinamento di bal a mal; da qui malvasi. Il tempo, attraverso occlusive, fricativi, affricate, eliminazione sillabe deboli, riduzioni, armonie, è il tetraonide lagopus muta che si adatta all’ambiente, ma ci ricorda che è sempre un altro appositivo: pernice. La sua sospetta comparsa in epoche glaciali sposta la storia del mondo di pari passo con passato, presente, futuro.

Possiamo terminare ora con: scellerato.

A pensar sulle tracce di questo freddo infero suolo, la presenza del tempo riduce l’uomo al saper l’inganno e lo spinge a dover costruire e sovracostruire certezze perché assume decadimento nel partecipare di morte. Non essendoci tempo, va costruito, all’interno di una realtà più grande, volutamente non indagata.

Son qui, perciò è d’uopo seguitare ancora sulla via della cagione. Il dolo, strumento di annientamento dell’indicibile intimo essere che per fenomeno dissociativo interrompe a guisa intermittente il tentativo di recupero civile, agendo di inarrestabile pulsione (le fiere, compagne di uno scritto precedente), cade pesante e macchia l’offesa, che non può esser sanata e disciolta all’interno dell’ognuna temporal frattura. La responsabilità vive a motivo del truce, nonostante il terribile non comprenda la gravità d’agiti, causa stortura mentale. Il fenomeno diseducativo è la consueta mai migliorata storia contro la memoria, che traduce falsità della realtà, negazione, e fuga dalla stessa.

Se la facoltà più nobile che costituisce la sostanza è il discernimento per intellezione, azione e pensiero, che vede bene e male per sapere (o a motivo del saputo), costituendo l’uomo governate e Superos, voi sarete come Dei, citando Fromm. Sostengo che l’aspetto di più importanza sia porre estrema attenzione alla genetica. È incessante operato della scienza biologica dover mettere in luce il come, sull’origine delle cellule bene formate e non ben formate, muovendo sui perchè; si potranno formulare ipotesi che leggano gli aspetti comportamentali. Mi esprimo considerando il vizio di chi partecipa della personalità narcisista in visione del determinativo perverso e di maligno. La stortura mentale è l’effetto della formazione cellulare, che ne è poi il gruppo atomico stesso. È così deducibile un’analisi che concentri l’attenzione sull’indifferenza del proprio indicibile intimo essere alle verità del reale concreto (e non del fittizio concretizzato), e quindi all’indifferenza di sé e dell’altro da sé. Questo conclude nell’esistenza per annullamento: un’automutilazione.

Debbo sempre esser fermo sull’osservato ricordando a me stesso che Il livore più velenoso si nutre di affinità. È quindi sempre un bene discernere e non farsi sedurre dall’estrema pericolosità della personalità trattata.

A tal punto, il legame che pesa costantemente e incessantemente su unheimliche, muove a pensare al dilemma: se il non familiare si trasforma in familiare, perchè indagato potrà risultare capito e compreso, l’uomo sa cosa sia l’uno e cosa sia l’altro o ne viene a conoscenza? E se questo venire a conoscenza fosse un rispolvero mnesico di quel che è ancestrale, vi sarebbe stato quindi sapere? L’azzardo porterebbe il critico ad asserir borbottando: «Non esistono il non familiare e il familiare! Ma di che cosa va blaterando? Cosa ci propina? E cosa intente con i contenuti di questi taccuini? Ci faccia capire o rimarranno congetture, opinioni, in un mare d’altro!». Or bene, finalmente. Qualcuno si fa avanti nel tentativo di portar dissertazione. Capiremo se il contraddittorio si svolgerà ampio e particolareggiato. La fretta muove a una risposta impulsiva che suona così: «Tutto è opinione. È dimostrato dal nostro poter argomentare riferito a quel che è dato, ma questo non intende l’indicibile intimo pensier del parlante. Se almeno per un sol istante dell’esistere si volesse cogliere il vivo, accorrebbe poiché necessario l’oltre, e il superamento dello stesso. Si rende l’urgenza di svelar l’indicibile, e io vado narrandolo». È ben comunque l’esortarsi alla prudenza, e seguitare.

L’uomo ben formato differisce (o può differire) dal non bene formato per la spinta pulsiva data dal sapere?

«Sulle prossime sarà il caso di aprire su sadismo e spietatezza». Mi dico. Ma subito vengo distratto da un pensiero che tenta di bussare forte quasi ad abbattere una spessa porta… Nulla, gli incessanti colpi catturano il presagio. Dovrò dischiudere.