Questa non è una biografia, solo l’insieme di ricordi, di sprazzi di memoria, su  un valente giornalista, non esente da cadute di stile improvvide.

Indro Montanelli, nato a Fucecchio nel 1909, era un toscanaccio  di bell’aspetto e penetranti occhi azzurri. Buona famiglia e dotte frequentazioni lo avviarono alla professione, che lo vedrà girare mezzo mondo; filo fascista e poi anti ( più per beffardo  e tosco scetticismo che per reale avversione), amico del gotha intellettuale italiano e compiaciuto fino al gongolamento nel definirsi come gli piaceva, (succede spesso, si usano due o tre aggettivi e il gioco è fatto): per lui, con l’aiuto di amici, si trovò la nicchia di anarco - conservatore, ovviamente anticomunista. Che non significa un baffo, ma fa scena.

Inviato in Africa durante il ventennio, sposò una dodicenne indigena pagando regolare dote e rivendicò sempre la sensatezza di queste nozze, alla luce del relativismo morale secondo i luoghi dove si vive; in seguito si sposò altre due volte, l’ultima con la famosa “donna Letizia”, dispensatrice di consigli sulle rubriche femminili anni sessanta, scomparsa qualche anno prima di lui. In mezzo ci fu la sua violenta battaglia contro la legge Merlin, odiosa per lui, sempre maschilisticamente nostalgico di Wanda (Wanda e Mafalda, ma sempre così si chiamavano le maitresse?): un rimpianto frequente, dovuto all’atteggiamento auto assolutorio dei maschi.

Che fosse sessista, d’altronde, era un fatto. Descriveva con fervida ammirazione il suo modello di donna, la signora De Gaulle, che assisteva il marito sempre silente; dileggiava Lady Diana “che credeva di  aver sposato un principe per farci l’amore”, e insomma, nelle donne non puntava e di massima le confinava in chiesa, in cucina e a letto (non le avrebbe volute certo in un giornale).

 Inoltre, era francamente razzista. Quando fu abolito l’apartheid in Sudafrica, ne scrisse con sarcasmo, preconizzando tragedie per l’inesperienza politica dei neri africani, che sotto i cari boeri vivevano in pace e senza preoccupazioni.

Con la sua patente di reazionario, ma la vanità di chi si atteggia a indipendente, ebbe difficoltà a trovare lavoro nel dopoguerra, in quanto non schierato nettamente, e si barcamenò politicamente fino al famoso suggerimento, negli anni settanta, di votare DC “turandosi il naso”. Comunque, grazie agli amici, in qualche modo riuscì a lavorare; e scrisse poi la corposa opera “La storia d’Italia” (da solo, poi in parte con Cervi e con Gervaso), che travolse i record di vendite.

Nel 1977 le BR gli spararono, ma si salvò miracolosamente. Lasciò il Corriere sprezzando l’utenza e l’ispirazione borghese di quel giornale. Fondò il suo, di “Giornale”, ma si sa com’è andata: restò vittima del Berlusconi, che non gli lasciava le briglie sul collo  (ma molti affermano che ne avesse subito il fascino). Rifiutò la nomina di senatore a vita sempre in nome dell’indipendenza. Alla fine, sembrava quasi di sinistra.

Il suo ultimo quotidiano, La Voce, fallì le ambizioni iniziali e da allora leggemmo i suoi articoli su settimanali o lo ascoltammo in televisione.

Negli ultimi anni si mostrava sempre con l’amata Olivetti lettera 32, sprezzante delle modernità tecnologiche.

Morì il 22 luglio 2001, privandoci così dei suoi commenti sul fresco G8.

Beh, Indro, sarei portata a detestarti, ma ho divorato i tuoi libri. Chapeau.