Diciamo la verità: di come funziona la giustizia in questo paese la maggioranza dei cittadini non sa nulla. Cioè sa che non funziona quando vi incappa, e lo sa molto bene, che i suoi guai siano di ordine civile o penale poco importa. Ma non sa nulla di come arrivano alcuni personaggi in un certo posto, di come si inneschino certi processi. Si va per parole chiave, quelle che si imparano dal telegiornale. Ad esempio, prima del 1992, il significato della locuzione “avviso di garanzia” era sconosciuto ai più.
Oggi la locuzione è ben nota, il significato percepito (che starebbe al significato reale come la temperatura percepita sta a quella misurata dal termometro), oscilla più o meno tra “avviso che ti ho beccato che hai rubato e devi andare in galera” e “avviso che sto mettendo a rischio degli interessi politici o economici e la parte di magistratura organica a quegli interessi mi manda in galera”. Il processo poi, come tutti veramente sanno, si farà in televisione. Se si leggono le oltre duecento pagine dell’intervista di Sallusti a Palamara (Il sistema) alla fine non si ottengono molte informazioni in più, o insegnamenti ulteriori. Il libro conferma il percepito. Il sistema delle nomine. Ma forse proprio questo è il punto. Viviamo in una “percepitosfera” (“mediosfera” mi sembra già ampiamento superato). E allora? Oggi a Roma, in questo momento, c’è una temperatura di 9°. “Primavera!” direbbe una connazionale di Bolzano. Ma io percepisco che ho un freddo boia. Perché la mia idea è che in questa città quando fanno nove gradi fa freddo. Perché la temperatura della città non si misura coi termometri, ma con la modalità delle relazioni sociali locali, con il modo in cui i suoi abitanti riscaldano o non riscaldano le case, si vestono o non si vestono, con che cosa intendono per freddo nel luogo in cui sono nati e da venti, trenta, quarant’anni o più sentono o non sentono freddo. E io sono nata a Roma. Dico infatti “percepitosfera” senza dare a questo termine un’accezione negativa, e senza neanche ambizioni di istituire con uno slogan una nuova morale, una nuova a-morale, o una nuova moralistica (come quella inaugurata dal pessimo “post-verità”). Percepisco che la magistratura è politicizzata. E allora? (di nuovo). La magistratura è politicizzata e i processi si fanno in televisione. E allora? (e tre). Nella percepitosfera non ti puoi difendere con il termometro o col dizionario giuridico. Ti rimane solo il libero pensiero.
Proviamo quindi a pensare. Il problema, mi sembra, non è che la magistratura sia politicizzata, ma che lo sia in senso improprio. Se per la nostra costituzione la sovranità appartiene al popolo, e questa – per garanzia di tutti - la esercita nei limiti della costituzione stessa, perché un potere dello Stato, pur indipendente da altri poteri, dovrebbe non essere soggetto alla stessa sovranità? Ossia alla sovranità della politica, intesa con la “p” maiuscola, che è il riconoscersi liberi e uguali di fronte alla legge. Strano circolo, ma effettivo. Quindi ben venga, per assurdo, la magistratura autenticamente politicizzata. Il problema però rimane: gli effetti percepiti non sono il frutto della politicizzazione, ma di una spartizione partitocratica. È qui la differenza: la partitocrazia è esattamente il contrario della politica come sopra definita. È l’esercizio del potere da parte di qualche decina di dirigenti di partito chiusi in una stanza. Potere delle cricche, insomma.
Cosa è che consente di passare dalla politica vissuta alla partitocrazia esercitata? Le forme tecniche: la forma tecnica del partito, la forma tecnica di un regolamento, la forma tecnica di un sistema elettorale. Il sistema non si attacca sulle definizioni, ma agendo sulle forme tecniche, dice qualcuno, e in linea di principio “tecnico” potrebbe avere ragione. Sfortuna vuole (per il popolo sovrano) che i discorsi sulle forme tecniche siano di una noia mortale. Basterebbe solo questo motivo per non dare spazio in televisione alle organizzazioni politiche che insistono sulla importanza di incidere su di essa. Prime fra tutte il Partito Radicale, ma non solo. Alcune tecnicalità, obiettivamente, non possono essere capite da chi non è preparato sull’argomento. Quindi, anche a dargli spazio in tivù, a questi radicali, non si fa loro un buon servizio. Si può dire li si censuri per il loro bene. E laddove proprio non si riesca a censurarli per bene, allora meglio utilizzare frasi di circostanza, “è un momento di profonde e importanti riforme”, “non ci può concentrare su singole disposizioni, quando è in atto un progetto riformatore” etc.
Peccato che la mancata riforma della giustizia in Italia, e del suo ordinamento (l’unico in Europa sopravvissuto al mutamento istituzionale dal fascismo alla repubblica), abbia generato vere e proprie strutture di tortura, nuove shoah, per tutti, e in tutti i campi. Torniamo ai recenti e serissimi fatti dunque.
Il Partito Radicale coinvolgendo la Lega di Salvini, è riuscito/e insieme/siamo riusciti a raccogliere firme sufficienti (sei consigli regionali), per far tenere il referendum intitolato alla “giustizia giusta”. Sei quesiti, in materia di giustizia, trasmessi per l'ultimo vaglio di ammissibilità alla Corte costituzionale, che si pronuncerà a riguardo entro il mese di febbraio, sui quali i cittadini sono chiamati a pronunciarsi che, nel merito tecnico, sono decisamente complessi da spiegare. E non soltanto perché, come tutti i quesiti referendari, lavorano chirurgicamente sui testi di legge e quindi, sulla scheda troveremo una serie di periodi astratti dall’esistenza dei non addetti ai lavori e dal nostro comprendere e uno spazio dove mettere una croce. Sono purtroppo difficili da spiegare anche nei loro effetti. Quanto sarà utile andare con il regolamento in mano a illustrarli al pubblico televisivo mentre qualcuno, di tutta risposta, ti urlerà in faccia “vi siete messi coi fascisti!” o qualche altro percepito? Non ci può essere partita, e non perché da una parte ci sia la verità e dall’altra parte la post-verità. Da una parte la gravità del principio del giusto processo, che deve essere legato alla candidatura e alla nomina dei magistrati che fanno parte del CSM, alla responsabilità dei magistrati, alla prevenzione di eventuali abusi delle misure cautelari, alla separazione delle carriere dei magistrati; dall’altra la leggerezza dello spettacolo di cabaret.
E comprendo l’avversione naturale verso chi parla di tecnica, tecnicismi, tecnicalità rivoluzionarie, senza tradurli nel quotidiano. Perché anche a me interessa la politica, e non la tecnica. Che in sé non è mai neutra, senza essere mai politica. Eppure in questo mio essere politica continuo ad essere innamorata della forma “tecnica” del referendum. Perché è il grimaldello con cui chiunque può tentare di forzare le serrature della partitocrazia. È evidenza in sé perché riguarda i corpi visibili di centinaia di migliaia di persone, perché è l’unico percepibile fattore critico e discriminante che costringere a prendere una posizione disallineata. Stare da una parte o dall’altra, anche rispetto alla propria convinzione partitica. Ecco perché i partiti odiano i referendum. Anche quando falliscono. E per tornare a quello di cui stavamo parlando. Al percepito che chiunque può facilmente percepire. Non è vero che la magistratura o una parte della magistratura sia contraria al referendum sulla giustizia giusta per ragioni tecniche o politiche. A voler far fallire questo referendum è la partitocrazia, in sé e per come si riverbera nella magistratura. Che un partito ben rappresentato in Parlamento, quei destrorsi di destra della Lega di Salvini, sostenga e promuova un referendum insieme a forze extra-parlamentari e transpartitiche è secondo costoro indice di mera strumentalizzazione. Perché, cito “un vero riformista si dedica alle riforme serie, fatte in Parlamento”. Forse qualche beneficio da 15 minuti potranno pur averlo, in qualche talk, appoggiandosi a nuovi discorsi spuri nella baraonda generale. Ma personalmente credo di più al fatto che questo sia semplicemente l’effetto, da questo punto di vista miracoloso, dei referendum: che costringono anche i partiti, fosse solo per ragioni di momentanea convenienza, a correre il rischio del disallineamento. Cioè a fare politica. E comunque, in primavera, il popolo sovrano, avrà, finalmente e si spera, l’occasione di contribuire radicalmente alla storia repubblicana del paese, una grande stagione referendaria, di riforme e di liberazione, vera partecipazione, nelle forme e nei limiti della Costituzione. Facciamone buon uso.