Ultimamente ho ascoltato tanti discorsi da amici e conoscenti inerenti quella questione vecchia come il mondo che riguarda l’ingratitudine.

Perché la gente sarebbe ingrata?

Però bisognerebbe stare anche attenti e fare autocritica rispetto all’atto di riconoscenza che ci si aspetterebbe dall’ingrato di turno. Magari, a volte, si pretende troppo; definendo il “troppo” come forma di riconoscimento difficile o inattuabile perché ostacolata dalle condizioni in cui si trova il presunto ingrato. E dipende anche dal valore che si attribuisce al bene o favore elargito e dal riconoscimento che si crede questo debba procurare. E quasi sempre sono valutazioni molto soggettive.

Dare un valore al bene, e prevederne una precisa contropartita, è un ragionamento che mi sento fare spesso in contrasto al concetto su cui paradossalmente si è sempre tutti d’accordo: il bene/favore è disinteressato, al netto del riconoscimento morale che rafforza la pratica del buon esempio.

Se un favore è prestato, e ci si aspetta che venga restituito, per giunta nella misura che si ritiene, per sé, adeguata al valore che viene sempre da sé  attribuito al favore stesso, allora non è certo un “favore disinteressato” ma una banale transazione do ut des! Come andare al bar per un caffè. Il barista si aspetta di essere pagato col prezzo che egli ha stabilito. Non sta facendo il favore al consumatore, né questi lo sta compensando col prezzo.

Se, per assurdo, il barista concedesse libertà di pagare qualunque prezzo, quasi certamente si lamenterebbe per l’ingratitudine delle persone che lo pagano meno del prezzo giusto che lui avrebbe in mente. Certo, sarebbe diverso prendere il caffè pagando quel che si aspetta il barista filantropo, ma poi spaccandogli il locale. Oppure se al magnanimo barista gli prendesse un colpo mentre il cliente finisce il caffè, andando via e lasciandolo esangue senza chiamare neppure i soccorsi. Questi sarebbero casi di vera ingratitudine.

Nella maggioranza dei casi non accade nulla di così drammatico, ma più spesso si verifica di non poter pagare neppure un centesimo di quel caffè offerto a “paga quanto vuoi e come vuoi”. Si va via ringraziando come semplice riconoscimento morale, e altrettanto spesso il barista indicherà come ingratitudine anche tale atteggiamento.

Pagare poco o nulla non farebbe dunque molta differenza, e la gratitudine morale parrebbe non avere molto valore per chi elargisce beni e favori. Ci si aspetta sempre qualcosa di tangibile in cambio.

Pure il contratto sociale, con tutti i suoi limiti e criticità, sotto quest’aspetto è consapevole e più evoluto del singolo individuo che paradossalmente ne sarebbe sottoscrittore. La società, nel suo astrattismo, recepisce con maggior sincerità quel principio di “bene disinteressato”, traducendolo nelle norme che governano la società stessa (oggi si sta ingarbugliando anche questo, se consideriamo i temi che ci impegnano in altre riflessioni).

Tali norme vivono nelle attenuanti e scriminanti rispetto ai comportamenti ritenuti antisociali, e dunque ingrati verso la società stessa. Magari dopo che il cittadino ingrato abbia pure goduto del welfare sociale come rimedio ai suoi episodi di bisogno. Come un figlio: aiutato dai genitori che li ricompensa rubandogli in casa, per fare un esempio.

Queste situazioni si producono per effetto di una moltitudine di cause che possono essere anche in concorso tra loro, e che avrebbero la capacità di far comprendere - ma non giustificare, ovviamente - l’origine ingenua della gratitudine perfetta. L'”innocenza” di un'azione ingrata non è quasi mai predisposizione caratteriale, ma ne diventa patrimonio a causa del vissuto e dell’assenza di vera consapevolezza culturale o intellettiva nel compiere quell’azione ingrata (per idiozia, psicopatia, stupidità, alienazione).

Il soggetto ingrato, quando lo è anche moralmente e senza giustificarne l’assenza di altro suo apporto, dà la priorità ai suoi bisogni perché spesso non comprende né focalizza quelli degli altri come bisogni altrettanto fondamentali. E’ dunque un chiaro egoista, ma per quei limiti sul vissuto appena visti. Il che lo differenzia dall’egoista ben erudito, dal narcisista, e altri individui dalle qualità negative che qui dobbiamo escludere, perché non interessano questo particolare ragionamento di nicchia. E presumo sia una nicchia ampia.

Allora perché, in questa nicchia, Mario ruba nel negozio dove lavora e il nipote della signora Carla non va a trovarla quasi mai?

Dipende da come il datore di lavoro tratta Mario. Questo non assolve Mario che per vissuto non vede soluzioni migliori, ma caratterizza quelle attenuanti che il sistema riconosce allo stesso Mario, perché il sistema si riconosce esso stesso imperfetto e delega a un giudice di valutare quale sia la giusta pena per Mario nel merito - anche - del suo vissuto e della condotta generale.

Così il nipote della signora Carla. Lui vuole molto bene alla nonna ma è giovane, sfruttato, stanco dopo orari di lavoro duri, e mette sé stesso al centro delle poche cose che può permettersi. Ma è indubbio che questo nipote non sta vivendo bene: egli è imperfetto come tutti, formatosi magari male per concorrenza di colpe esterne e irresistibili. Nonna Carla non sarà da meno, se non concede queste attenuanti al nipote.

Nessuno di noi può risultare perfettamente grato a ciò che gli altri si aspettano, quand'anche tale aspettativa fosse oggettivamente perfetta e non scadesse in quel do ut des visto sopra. Vivremmo molto meglio se aderissimo con serenità a quel principio sul quale concordiamo un po’ ipocritamente: il bene è disinteressato, e la riconoscenza è principalmente apprezzabile nella sua componente morale.


📸 base foto: NoName_13 da Pixabay