L'africano poteva essere paragonato alla merce venduta al mercato, veniva comprato e venduto nello stesso modo in cui noi acquistiamo generi alimentari in un supermercato. L'arabo arrivò al villaggio con dei soldi nella borsa, con una pistola in mano e portava con sé anche dei vestiti da dare al capo villaggio.
Quando l'arabo arrivò, chiese al capo di cercare dei giovani da portare via come schiavi e il capo cominciò a pensare a qualcuno con cui aveva recentemente litigato. Quando la gente vide gli arabi, si rese conto che alcuni di loro sarebbero stati portati via e che non avrebbero mai più fatto ritorno. Al che la gente cominciò a nascondersi. La foresta divenne un rifugio, montagne e caverne divennero case. Quando il capo riusciva a stanare dei giovani li conduceva agli arabi.
Dietro ogni deportato c'erano pianti, lamenti di sorelle, fratelli e genitori; fu davvero un periodo atroce in Africa. I viaggi erano lunghi ed estenuanti, a volte si incappava in leoni e leopardi feroci, ma l'arabo aveva sempre con sé una pistola per difendersi. Se una donna partoriva durante il viaggio, il bambino veniva scaraventato a morte contro un albero. Il prezzo di una schiava donna era più alto di quello di uno schiavo maschio e agli schiavi maschi veniva inflitta la pena della castrazione; i trafficanti non volevano che avessero figli. Gli schiavi, stanchi ed affamati, venivano portati nelle grotte di Shimoni, sulla costa. Rimanevano nelle grotte mentre si cercavano dei compratori.
Alcuni venivano portati a Zanzibar, dove c'era un grande mercato per la vendita di schiavi. Da Zanzibar gli schiavi venivano poi imbarcati su grandi dau - imbaracazione tipicamente araba - per l'Arabia. Quando c'era il minimo segno di pericolo, lo schiavo incatenato veniva gettato in mare; era molto difficile per gli schiavi nuotare e alcuni di quelli che venivano gettati in acque profonde ineluttabilmente affogavano. La gente faceva affari d'oro con gli schiavi, sia dall'altra parte dell'Oceano Indiano che dall'Oceano Atlantico.
In seguito, Dio mosse il cuore di un uomo inglese, il suo nome era William Wilbeforce, il quale si oppose alla schiavitù definendola "peccato". Dopo vent'anni di sforzi instancabili di Wilberforce, insieme all'aiuto di un piccolo gruppo di ricchi cristiani inglesi conosciuti come la "Setta di Clapham", il Parlamento inglese finalmente votò, nel 1807, per abolire la tratta degli schiavi. Ma ci sarebbero voluti altri ventisei anni per emancipare gli schiavi esistenti ed abolire completamente la schiavitù.
Durante questa lunga lotta Wilberforce affrontò un'intensa opposizione da parte di politici e uomini d'affari, tentativi di assassinio e lunghi periodi di salute cagionevole. Ma la sua ferma volontà di porre fine a questo male sociale alla fine ebbe la meglio e nel luglio 1833, solo tre giorni prima della sua morte, la Camera dei Comuni approvò una legge che emancipava tutti gli schiavi nell'Impero Britannico.