Le parole sono vuote...
La regina dell’etica virtuosa è indubbiamente l’onestà intellettuale. Questa virtù è determinante nell’integrità delle condotte, perché nasce dal pensiero che costituisce lo spirito della persona, la sua intera essenza nell’essere che si ripercuote in ogni atteggiamento della vita.
Quante volte capita di assistere ai ripensamenti delle persone; al loro mancare fede alla parola data o al pensiero profuso. E la scusa è sempre la stessa: «Non ho detto quello… intendevo quest’altro...». Se è possibile, fin dall’inizio si cerca di rimanere vaghi e ambigui, proprio per poter manipolare meglio il proprio intendimento nel momento in cui il fatto discusso viene a concludersi.
Si sprecano quintali d’inchiostro e carta in un frasario tanto rigoroso quanto articolato, il cui rito non può violarsi nel mettere nero su bianco gli accordi, perché la fiducia negli intenti verbali, o d’altro modo che siano, non è mai stata cosa di questo mondo.
Quel che è scritto è scritto! E talvolta nemmeno quello è sufficiente a dirimere le malcelate intenzioni di chi lo ha scritto e sottoscritto.
Non è questione di essere litigiosi sulle cose dette o stabilite, ma è l’interesse che muta. E se ieri andava bene quel discorso, oggi non è più così. Oggi quel “vocabolo” lo dobbiamo intendere in maniera diversa, perché anche chi l’ha promosso, sbagliando, non ha intenzione di soggiacere all’errore commesso.
Non c’è assunzione di responsabilità, non c’è, dunque, onestà intellettuale.
Pirandello in questa circostanza non mancava di ricordarlo in una delle sue famose novelle: «Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto» (Uno, nessuno e centomila).
La buona fede non va mai esclusa; ma una volta valutata la sua eventuale sussistenza emerge quasi sempre l’avvilente constatazione di volerla semplicemente vinta, non ammettere l’errore, rigirare la frittata, cascare all’impiedi e non perdere il profitto che si voleva trarre. O è litigio, o si abdica riconoscendo sempre e comunque la “buona fede” come via d’uscita elegante anche per chi soccombe al gioco degli intenti.
Ma quant’è vecchia questa disonestà? Tantissimo. E’ nel DNA umano.
Si narra che il filoso Protagora, padre dei sofisti e abilissimo oratore, ricevette un giorno la richiesta di un giovane, Evatlo, di essere istruito negli studi di legge e nelle abilità proprie dell’avvocatura. Aulio Gello, scrittore e giurista romano, racconta questo esilarante episodio che è arrivato ai giorni nostri come “paradosso dell’avvocato” (o anche: paradosso di Protagora).
Siccome Evatlo non era molto ricco, Protagora consentì al giovane di pagare solo l’anticipo e saldare le sue competenze non appena avesse vinto la prima causa. Conclusi gli studi, Evatlo non si volle dedicare alla carriera legale e preferì fare altro. Dunque non vinceva nessun causa.
Stanco di aspettare, Protagora chiesa a Evatlo di saldare il proprio onorario, ma quest’ultimo ricordò a Protagora che secondo gli accordi avrebbe dovuto pagarlo solo quando avesse vinto la prima causa.
Protagora, irritatissimo, lo citò in tribunale e durante il processo affermò «Se Evatlo perde la causa allora deve pagarmi per obbedire alla corte, e se Evatlo vince la causa anche allora deve pagarmi perché questa diventerà la sua prima causa vinta».
Il filosofo ne sarebbe uscito comunque vincitore. Ma Evatlo, cal canto suo, replicò: «Se vinco la causa non devo pagare perché così è stato deciso dalla corte; anche se perdo non pagherò perché, non avendo ancora vinto la mia prima causa, l’accordo fatto con Protagora non mi vincola».
Il paradosso è evidente e denuncia la mala fede di Evatlo, che non si assunse le proprie responsabilità nell’aver cambiato idea, e si prese anche gioco del suo maestro cavillando sull’accordo che avevano fatto.
Ai giorni nostri sarebbe un paradosso giuridico facilmente solvibile. Ma vedete comunque quanto sia antica la malsana abitudine dell’uomo di rivoltare le intese a proprio piacimento? E al contempo quanto sia preziosa quell’altra (ben più piccola) parte di umanità disposta a perire pur di rispettare le intese con correttezza e buona fede… con onestà intellettuale!
Base foto: Verità e Falsità - Scultura di Alfred Stevens, 1857-66