Eric Clapton, anglofilia
Ci tocca un passaggio, obbligato per noi “boomers” scavezzacolli, fruitori del, per ora, miglior periodo dell’era umana, che temiamo sia irripetibile. Siamo anglo addict.
Noi ce ne sbattiamo di cetre e lire, di menestrelli e tenori, di ugole d’oro, tigri di Cremona e pantere di Goro, di polke e mazurche, siamo dei metropolitani frustrati e derelitti, dei rocker e groupie mancati, cresciuti sotto il giogo USA/UK, mentalmente colonizzati.
A noi Surriento e Roma nun fa’ la stupida stasera, la bela Madunina e la porti un bacione a Firenze, fanno venire uno stimolo intestinale, perché vogliamo vivere nelle degradate periferie di Oklahoma city o Bristol; e inneggiare a quanto è bella la vita non ci interessa, perché, come è chiaro, questa stronza ti fa sgambetti a ogni passo. Capivamo le parole? Ecchisene, lo sanno tutti che pure in italiano, si cantava a pappagallo, e poi quella lingua non va tradotta, ma “sentita”.
Noi ci pasciamo del peggio del peggio, di quegli accordi tristi al limite dell’autodistruzione che arrivano dalle brume scozzesi e dagli slum del Queens, e l’allegria del sole e del mare, ce la facciamo arrosto, tanto ci è stata pure tolta e chissà quando la ridaranno indietro.
Oh Eric, ex Yardbirds, quando esordisti con la canzone più bella del mondo, quella “Layla”, in versione hard e acustica, sempre così orgasmica, capimmo che ti avremmo amato per sempre.
Oh Eric, con quella slow motion alla chitarra, proseguimento ideale del vostro pube, che in mano a una donna suona sempre un po’ stonata, perché è fallica e onanistica, quanta buona roba ci hai dato, evitando che assumessimo quella vera perché ci bastava la tua.
Oh Eric, wonderful tonight, You shot the sheriff rubato a Bob Marley, ma chi potrà mai superarti?