“Li aveva sorpresi in auto: la moglie con l'amante. E la sua reazione è stata violenta. Botte per i due. Poi la donna è stata portata a casa dove ha subito anche una violenza sessuale. Il fatto è accaduto in provincia di Arezzo, in Valdichiana. Il marito della vittima, un 37enne, è stato arrestato dai carabinieri e, secondo quanto appreso, deve rispondere di svariati reati tra cui la violenza sessuale.”

Questa è una delle tante storie che leggiamo sui giornali. Si stavano separando...  Per tale motivo utilizziamo la parola amante, perché di fatto èancora in essere il vincolo matrimoniale.
Il linguaggio utilizzato assume un ruolo importante nella descrizione della storia, sia sui giornali che nelle aule processuali.

Chi offende, spesso l’uomo che commette violenza, viene descritto come “bravo ragazzo”, “padre premuroso”, che per un raptus di gelosia, un momento di follia, commette un gesto irreparabile. La donna, così, diventa vittima due volte: sia del reato, che della narrazione della violenza nel momento in cui viene resa pubblica.

L’utilizzo del termine sopravvissuta al posto di vittima si è fatto strada negli ambienti femministi a cominciare dagli anni settanta e si è affermato sempre di più fino a raggiungere i mezzi d’informazione, soprattutto nei paesi di lingua inglese.

Dopo aver definito per anni "vittime" le donne che avevano subìto violenze, un termine scelto anche per guadagnare sostegno alla loro causa, i movimenti femministi hanno sentito il bisogno di sbarazzarsi di questa parola triste e sminuente e hanno cominciato a parlare di "sopravvissute" per evidenziare la volontà delle donne di reagire e di riprendere in mano la loro vita.

La parola vittima, spiegano, implica impotenza, passività, e quindi l’idea che la donna abusata sia debole, da compatire e intrappolata per sempre in questa condizione.

Sopravvissuta, invece, suggerisce uno sviluppo, assegna alla donna un ruolo attivo, trasmette l’idea che sia libera e abbia il controllo della sua vita, e che stia combattendo a livello giuridico o personale contro la violenza subita.

Nelle aule di tribunale tuttavia, poiché lo stupro e la molestia sessuale sono reati, le donne che hanno subito violenza in genere continuano a essere chiamate "vittime". D’altra parte, ci sono donne che preferiscono così: non è scontato che tutte siano sempre o debbano sempre essere delle sopravvissute, capaci cioè di reagire o nelle condizioni di farlo.

La parola vittima, comunque, implica anche una responsabilità, da parte della persona offesa. E di una violenza non si è mai responsabili.