“Nun c’è bisogno ‘a zingar p’andivinà” è il verso di una celebre canzone napoletana composta da Salvatore Gambardella.

Una melodia che Luigi Di Maio, campano verace, deve aver ascoltato decine di volte, a sufficienza per sapere che non avrebbe dovuto ricorrere né a cartomanti né ad indovini per comprendere quelli che sarebbero stati gli scogli sul suo percorso politico.

La verità è che per incapacità si può non cogliere o sottovalutare la realtà con cui rapportarsi, ma la si può anche ignorare intenzionalmente perché assillati dall’idea fissa di realizzare un qualcosa di incompatibile con la situazione.

Ecco perché da mesi sono convinto che Di Maio fosse così ossessionato dalla fregola di diventare premier o, comunque, di sedere su una poltrona ministeriale da avere intenzionalmente finto di non vedere che un governo con Salvini si sarebbe rivelato un “ménage à trois” per la palese e radicata dipendenza da Berlusconi del segretario leghista.

Non occorreva di certo una intelligenza superiore per cogliere e valutare, ad esempio, un “dettaglio” di grande interesse: cioè, solo dopo aver ottenuto il beneplacito dal dominus di Arcore Salvini aveva data la sua disponibilità a formare il governo con il M5S.

Perché mai Berlusconi aveva dato il suo assenso?

“Elementare Watson” avrebbe esclamato Sherlock Holmes, perché attraverso Salvini avrebbe potuto influire sull’azione di governo curando i suoi interessi.

Fatto sta che quello è stato il momento in cui, forse senza rendersene conto, Di Maio per un piatto di lenticchie ha svenduto il M5S al duo Salvini-Berlusconi.

Ed il gatto e la volte hanno continuato a mantenere vivo il loro scambio consultivo sulle vicende del governo gialloverde.

D’altra parte come non rendersi conto che, pur disponendo alla Camera di 221 deputati contro i 125 della Lega, cioè pur costituendo il 64% della forza che sostiene il governo, il M5S continua ad uniformarsi ed assoggettarsi alle scelte politiche e comportamentali di Salvini, fino a rinunciare agli stessi principi fondativi del movimento?

Così è bastato che Vito Crimi, sottosegretario pentastellato, rilasciasse una intervista al FQ e con infantilismo da asilo Mariuccia minacciasse di ridistribuire gli investimenti pubblicitari tra tv e carta stampata accennando anche a “tetti” correlati alla reale diffusione di ogni media, per far sì che Berlusconi tornasse a confermare di essere lui il vero burattinaio del governo gialloverde.

In quattro e quattr’otto, per richiamare all’ordine il titubante Salvini, lo ha convocato ad Arcore per un incontro con il sottosegretario Giancarlo Giorgetti ed il vicepresidente forzista Antonio Tajani.

Ai grulli doveva essere raccontato come un convivio tra vecchi amici per assistere insieme all’incontro di calcio Cagliari – Milan.

In realtà, secondo indiscrezioni giornalistiche, si sarebbe trattato invece di una riunione impegnativa con all’ordine del giorno possibili “do ut des”.

Ad esempio, in cambio dell’appoggio di FI alla nomina di Marcello Foa alla presidenza RAI, candidato caparbiamente voluto da Salvini, Berlusconi avrebbe chiesto di affossare il progetto Crimi perché i “tetti” pubblicitari sottrarrebbero ai ricavi di Mediaset centinaia di milioni di euro (NdR: che fine ha fatto il conflitto di interessi se il presidente RAI sarà nominato solo per volontà del padrone di Mediaset?).

Così come, temendo che dalle prossime regionali di autunno FI esca con le ossa rotte se non trainata dalla Lega, che ha minacciato però di correre da sola, Berlusconi avrebbe reclamato almeno due candidati forzisti alla presidenza di altrettante regioni.

Ci sarebbe, poi, la richiesta di candidati amici di FI per il CSM e per il commissario alla ricostruzione del ponte Morandi.

E Di Maio cosa dice?

A chi lo ha intervistato ha risposto: “Fastidio? Assolutamente no!” perché come partner oramai arrendevole e rassegnato di questo “ménage à trois” si sente già appagato dal fare il palo, sempre sorridente, fuori dalla stanza dei bottoni.