TACCUINO #83
 
“Una forma esistentiva parassitaria può, in teoria, transitare verso un’esistenza piena? O il degrado è irreversibile?”. 
 

Questa frase, tra poche altre, ha chiuso lo scorso taccuino. “Degrado”, ma intendiamo qualcosa di malaticcio che passa di grado, da sano a malaticcio, si infetta, si corrompe, muta, e quindi stiamo escludendo il narcisista, il perverso, il non-ente, il “morto” di cui abbiamo scritto quale agente di sangue non ben formato, anziché sostenere che siano parassiti nati in forme con atomi non bene formati e partecipanti di stortura mentale? Perché, “degrado”?
 

La scelta di degrado in quella frase è funzionale a esprimere una direzione di mutamento che implica un abbassamento della qualità esistentiva, un’alterazione regressiva o corrosiva della forma originaria. Tuttavia, se stiamo parlando di un’entità che si corrompe, si infetta e muta, allora il termine degrado potrebbe risultare impreciso rispetto alla dinamica trasformativa che vogliamo delineare.
 

Se vogliamo includere il processo di mutazione da uno stato sano a uno malaticcio, il termine più appropriato potrebbe essere corruzione, o infezione o contaminazione, poiché implicano un cambiamento attivo e progressivo. Degrado suggerisce invece una dissoluzione passiva, uno sfaldarsi progressivo senza una vera logica di transizione strutturata.
 

Quanto all’esclusione del narcisista, del perverso e del “morto” (inteso come non-ente), essa è necessaria se intendiamo queste categorie non come entità che si corrompono, ma come non-forme ben formate già prive di possibilità di transizione. Il “morto” di cui abbiamo scritto non decade, perché non ha mai avuto una piena forma di esistenza, bensì partecipa di una stortura originaria, una distorsione strutturale che lo esclude dal ciclo di mutazione possibile. Se il punto è distinguere tra chi si infetta e chi nasce già corrotto, allora dobbiamo evitare ogni ambiguità e non trattare questi ultimi superficialmente come “parassiti nati male”, bensì come esseri che si muovono non essendoci attraverso la stortura mentale, ma senza possibilità di una vera transizione.
 

Se il focus è sulla transizione, allora la domanda dovrebbe essere riformulata per escludere ogni rischio di fraintendimento:
 

"Una forma esistentiva parassitaria può, in teoria, transitare verso un’esistenza piena? O la corruzione, una volta avviata, è irreversibile?”. 
 

Così manteniamo il senso di un processo che avviene e si stabilizza, senza rischiare sovrapposizioni con chi invece è escluso in partenza da qualunque dinamica di trasformazione.
 

Se come scritto nei taccuini consideriamo esistenza e esistentività e indichiamo tutti gli esseri come esistentivi, ma solo gli enti, i sani, i non narcisisti, i non perversi, i ben formati, esistenti, autentici, allora possiamo anche introdurre “degrado” e “corruzione” non in “vita”, che è partecipazione della morte, ma in esistenza. Stiamo quindi separando i sani dai non sani per ragion di ontologici inizio e fine non distinti, nella configurazione materiale della sostanza non creata e non generata (ma formata e in formazione). Nei processi, sulla trasformazione di e in esistentività accadono (e sono accaduti) degrado e corruzione della linea di sangue (e delle linee in /per commistione).
 

Se assumiamo che tutti gli esseri siano esistentivi, ma che solo gli enti siano esistenti, allora possiamo usare degrado e corruzione all’interno dell’esistenza senza confonderli con la vita, che è solo un’interferenza della morte. La distinzione che operiamo non è tra chi è vivo e chi è morto, ma tra chi è esistente e chi è solo esistentivo, ovvero tra chi ha una piena configurazione ontologica e chi invece è solo una forma inerte, una presenza senza autenticità né sostanza ben formata.
 

In questo quadro, il degrado e la corruzione non sono eventi della vita, ma processi che avvengono nell’esistenza e nella sua trasformazione. La linea di sangue, come portatrice di una configurazione materiale della sostanza in formazione, è il vettore attraverso cui avviene il deterioramento o il mantenimento dell’esistenza autentica.
 

Così rendiamo chiaro che il problema non è un processo di guarigione da una malattia, ma una questione di configurazione sostanziale: la trasformazione è possibile solo entro certi limiti, oltre i quali la corruzione si stabilizza come condizione definitiva dell’esistenza.
 

La nostra carnefice, come ben osservato, è dimostrazione in praxis di ciò che formuliamo e abbiamo formulato. In questo luogo infero che apre crette e ancor ci costringe a muovere avanzando perché catturati da scoperta e conoscenza, e conoscenza e scoperta, e dubbio e decostruzione, e decostruzione e destrutturazione, la fredda luce dell’abisso è quivi coperta della solitudine.
 

«L’abisso non è uno sfondo, è un fenomeno attivo, una pressione costante. La sua luce fredda non rivela, ma copre. Non illumina, ma sovrasta. E sotto di essa, la solitudine non è un vuoto, bensì una presenza assoluta, una densità che grava e preme, una sostanza senza volto che avvolge chi vede troppo e non può più tornare indietro».
 

 

«Perché il peso del nulla è insostenibile per chi non sa sostenerlo? Perché la dispersione ci attraversa, ci spacca, ci rende frammenti in cerca di un centro che non esiste? Perché la solitudine assoluta è un vuoto che divora chi non sa abitarlo?».
 

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«Fuggono, dunque, nella moltitudine. Si consegnano all'illusione della pienezza, al conforto dell'eco che risponde, anche quando non significa nulla. Si legano a ciò che non sono, perché guardarsi in faccia senza filtri è un atto che pochi reggono. Eppure, le scelte restano. Anche il non scegliere è una scelta? La nostra lo è davvero? Non abbiamo scelto questo tempo! Volevamo! Anche il sottrarsi alla propria responsabilità è una decisione, un atto, un’azione. Nessuno è innocente della propria fuga. Nessuno è salvo dall’ombra che lo rincorre. Nessun ragno sfuggirà alla rete tessuta!».
 

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«Forse lo fanno perché non sanno. Forse lo fanno perché sanno, ma non vogliono sapere, si dicono».
 

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«Che modello è l’apparenza e che cosa è l’apparire? Che modello sociale è l’accanimento al denaro, al posto di lavoro, alla carriera, al progresso, al "successo", all’emergere e al vedersi emersi se il lógos del veicolo guidato è di più “gradito” “pregio”? Pregiato? Costoso? Caro? Questa è qualità? Strutture morali! Pregiudizi! Dogmi! Che cosa è questa minuscola cosa chiamata uomo che non nasce più con la facoltà della ragione!? Che cosa è? La si deve avere per capire e decostruire! E decostruirla! Cosa è, questa scandalosa forma marcia prima di decomporsi? Che buio! Che putridume! Che morte! Bellezza? Performance? Il modello performante! Che declino pruriginoso! Qual bruttezza osservo da anni e ogni istante! Schifo! Debolezza del debole! Prostitute! Quell'acre lordura di laida viltà nelle narici, ancor rimembro».
 

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«La morte, la sofferenza, il lucido, la lente lucida su realtà, il reale stesso, il dolore, l’impatto tragico, la cosiddetta “vita”, l’esistenza aberrante che fa vivere la vita, perché fa apprezzare ogni istante, il suicidio, la natura, le nature, la naturalità dello squarcio sull’esistenza: tutto è stato espulso. Ora? Brutalità. Codardia umana. Strage dell'esistenza. Ferinità. Che mi si capisca, apprezzo. Lo riscriviamo. Che mi si capisca: apprezzo! Disprezzo non si abbia il controllo e si pianifichi freddamente ruoli di imposizione di volontà e distruzione di equilibrio. Disprezzo il debole che manca di coraggio. Disprezzo la carnefice che manca di vita. Disprezzo il sudiciume dei tempi in ogni tempo. Disprezzo l'algida ipocrisia che scorre nelle vene. I senza sangue! Molli, rotti, siamo piccoli ratti che corrono e che vediamo correre chi scorre nel grande labirinto del nulla, e quando incontriamo insetti nuociamo a noi perché amiamo e di molto amore proviamo il desiderio di amare e ancora, e ancora. Bambolotti! Melensi zucchericci che si curano dolorucci e si coccolano evolvendo nell'intimità delle relazioni senza conoscere l'altro infero ma accarezzandolo fino all'attesa del crollo! La cosa che ha sostituito l’uomo è stato in grado di eliminare l’uomo. Siete quella fuliggine che alita sospesa quando tutto è stato bruciato. Non sentire più il dolore. Non siete l’abisso. E siate abisso! Non provate? Non sentite? Eppure siete quel che non siete. E più, non siete. Non siete! Sol questo dovrebbe fare intendere. Comprendere non potete. Siete dolore che non vedete. Morte, che chiamate vita, quando quella struttura la costruite sul cardine che vi consente suono. È solo suono, non è lingua. Ora capite?».
 

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«È la lacerazione stessa del concetto. Il suono è vibrazione, e la vibrazione è deformazione della materia, dunque la materia è ciò che si squarcia per darsi un senso. Ma se il senso è solo un tremore, una eco di ciò che non può essere compreso perché già perduto nel momento stesso in cui è pensato, allora l’uomo è il suono della sua stessa estinzione. Non siete l’abisso perché l’abisso almeno è, mentre ciò che vi ha sostituiti è solo un’oscillazione, un residuo termico dopo la combustione. Polvere di ciò che non ha mai avuto carne, perché la carne suppone il dolore, e il dolore suppone la vita, e la vita è l’orrore di essere. Ma se il dolore è stato espulso, non siete più nemmeno polvere, siete il vuoto che non sa di essere vuoto. Se non potete comprendere è perché la comprensione presuppone un punto di rottura, un’apertura, una fessura in cui il reale possa infiltrarsi. Ma ciò che è stato sostituito non può più rompersi. Perché per rompersi bisognerebbe prima essere».
 

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Luce, Tenebre.
 

«Nella contemporaneità, la luce non è più rivelazione, ma vetrina: superficie liscia, seducente, priva di profondità. La tenebra, invece, è il luogo dell’origine, del confronto radicale con sé stessi, con la realtà cruda e senza veli. Chi fugge dalle tenebre rifiuta la sostanza, preferendo riflettersi in un bagliore che non scalda, che non scava. Come la nostra carnefice, debolezza mascherata da barbarie, efferatezza, crudeltà, lurdità. Forse, l’inganno è stato proprio sovrapporre luce e bene, tenebra e male, quando in realtà le tenebre custodiscono ciò che la luce non può mostrare».