Ricchezza e povertà
Non è il titolo di un romanzo di Dostoevskij, né la trasposizione seria dell'opera teatrale di Scarpetta “Miseria e nobiltà”, da cui il film con l'immenso Totò.
Il più grande pregiudizio della società è quello di aver attribuito ai termini “ricchezza” e “povertà” un significato economico. Così in tutti i dizionari e nelle enciclopedie. Ad esempio, sulla ricchezza Wikipedia esordisce nelle prime righe: «La ricchezza, in senso economico, è la larga disponibilità di beni materiali e denaro. La ricchezza è chiamata a misurare il benessere economico di un soggetto fisico (persone, famiglie ecc.) o giuridico (società, impresa, Stato ecc.) ed è un parametro utilizzato in economia che stima la quantità di beni tangibili e intangibili, nella piena disponibilità del soggetto, che abbiano valore di mercato e siano in grado di produrre reddito».
E' una descrizione tratta dal De Mauro (Paravia), ma non è diversa quella del Devoto-Oli, tanto per citare due tra i più grandi dizionari di riferimento sulla lingua italiana. Dopo - anche tanto, secondo i vari dizionari - abbiamo le definizioni secondarie, che spiegano un accezione probabilmente più nobile e intesa come l'abbondanza di virtù umane in una persona.
E l'esatto contrario si verifica per la povertà.
Da cosa nasce questo pregiudizio che ha traslato dei significati nobili (senza il “probabilmente”!) con la materialistica concezione del possesso?
Già al solo constatare che una persona “è”, determina la disarmante conseguenza di non poter essere ciò che possiede oltre il “sé”. Perché è intuitivo: muore, ad un certo punto, e l'unica cosa che porta con sé è il suo essere stato. Cosa è stato? Quello che gli altri ricorderanno e ricalcheranno o ripudieranno (la sua morale), per “essere” a loro volta (in quella morale, o parte di essa). Dunque un'eredità immateriale che racconta qualcosa, e in questo ha significato. Diversamente dall'eredità materiale, che passa semplicemente di mano, e non ha nessun significato nell'"essere", ma una mera utilità che passerà ancora di mano. E ancora. Senza significato tangibile.
Quindi se l'unico significato può esistere nell'"essere", l'accezione primaria di ricchezza e povertà non può che riferirsi a quanto si è stati (ricchezza) o non si è stati (povertà). Non sarebbe nemmeno possibile usare i due termini per indicare il possedimento materiale, essendo esso stesso - possedimento - privo di significato. Tutto ciò che possiamo possedere è l'"essere": ciò che siamo ci appartiene, lo partiamo con noi e ne tramandiamo l'immaterialità del buono o cattivo esempio.
Semplifichiamo ancora le cose con un esempio.
Immaginiamo che possa esistere solo una persona per volta, in uno spazio vuoto e ostile, dove però esiste una navicella in cui possiamo vivere e nutrirci.
E' la volta di Eva.
Blink!, e inizia a esistere.
Sta dentro quella navicella tutta sua, che la nutre e le fornisce ogni cosa necessaria.
Quando sarà finito il suo tempo, Eva farà Ploff!, e scomparirà.
Ma ecco subito un altro Blink!. E' comparso Adamo.
Ora sarà lui a possedere la navicella in cui si nutrirà e vivrà.
Sarà un susseguirsi di Blink… Ploff… Blink…Ploff…, mentre la navicella è ancora lì. L'hanno posseduta tutti, e tutti la possiederanno.
Dunque il significato di ricchezza e povertà come possedimento, uso di qualcosa, non ha senso e non è corretto. L'unica cosa che si può affermare di possedere per sempre è se stessi e la propria morale; ed escludendo il “se stessi”, in quanto non avrebbe senso affermare «Sono ricco di me!» o «Sono povero di me!» (se non per la poetica), rimane l'unica possibilità logica che si presenta nel possesso di una qualità immateriale (morale), come: «Sono ricco d'amore!».
Per conseguenza si ha che: non ha senso il «Sono ricco di soldi!», ma ha senso: «Sono ricco d'amore!».
Ma come abbiamo detto all'inizio, la società moderna non la pensa così. Ci dice il contrario, e commette un grave errore che manda letteralmente in tilt i cervelli; si determina quella “dissonanza cognitiva” che si estrinseca nel ricevere ed elaborare input totalmente conflittuali tra loro, ovvero input che non potremmo elaborare in quanto privi dell'interfaccia necessaria a decodificarli. E allora vengono semplicemente “passivizzati”, acquisiti per fede in quanto non siamo in gradi di comprenderli; e non potendo conferirgli un nostro significato autonomo allora li accettiamo e basta.
Accade come in tutte le nozioni che si accettano acriticamente. Per esempio in matematica si può imparare perfettamente tutto il procedimento per risolvere una disequazione, ma solo pochi capiscono a cosa servirà mai nella vita saper fare una disequazione.
Mi piacerebbe poter dire che non è sempre stato così.
Invece, questo pregiudizio non è affatto il male della nostra contemporaneità. E' stato vivo e presente forse dall'alba dei tempi, considerato che l'umanità ha sempre puntato sul concetto di “proprietà” quale elemento di potere e distinzione sociale. Forse, potremmo dire, che in passato aveva un peso specifico decisamente diverso, e molti erano i “potenti” (possidenti) che invidiavano i sapienti (sempre poveri di pecunia) e cercavano di farsi istruire e illuminare da loro. Una ricerca dell'essere che oggi è quasi scomparsa, nei “potenti” odierni.
Dal canto loro, chi persegue la ricchezza nell'essere (filosofi, pensatori, artisti, inventori, etc.) hanno sempre avuto chiaro che il primo significato dei termini ricchezza e povertà è quello di essere capaci o meno di seguire e acquisire virtù e conoscenza. Proprio come diceva uno di loro: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».
I pilastri del mondo sono loro. E nessuno di loro ha mai impegnato il suo tempo per acquisire il possesso materiale, al contrario considerato come una distrazione. Ed eccone alcuni, filosofi e matematici, idealmente riuniti da Raffaello nel suo splendido affresco della “Scuola di Atene”, presso i Musei Vaticani. L'immagine che accompagna quest'articolo come sua cornice ideale.
Andrebbe già bene se i dizionari venissero aggiornati, ponendo in prima accezione i valori immateriali delle qualità umane. E' piccola cosa. Ma è attraverso piccole cose che si approda ai grandi cambiamenti.
E poi pensate il poter dire: «Lui è ricco!». E tutti a comprendere che il complemento di specificazione da sottintendere è tutt'altro che il denaro. Magari è l'amore!