di Guglielmo Ferraro.
Le linee guida sul colesterolo ematico hanno fornito limiti sempre più ristretti sui suoi tassi di normalità, incrementando di fatto le vendite dei farmaci. Il fatturato annuo ottenuto negli USA dall’industria farmaceutica con le statine (i farmaci anticolesterolo più comunemente usati) ammonta a più di 20 miliardi di dollari (26 miliardi nell’anno 2003: dato pubblicato dal Medical News Today). Attualmente viene considerata normale una colesterolemia totale al di sotto di 200mg/dl.
Possiamo brevemente ricordare che il colesterolo totale costituisce la somma di tre tipi di lipoproteine (composti deputati al trasporto dei grassi): le HDL (lipoproteine ad alta densità), le LDL (lipoproteine a bassa densità) e le VLDL (lipoproteine a bassissima densità). La Società Europea di Cardiologia ha recentemente sfornato delle linee guida riguardanti le sole LDL. Il limite massimo per il colesterolo cattivo è stato adesso ridotto a quota 100 (100 mg/dl). Adeguarsi a questi nuovi parametri potrebbe risultare difficile per molti di noi.
Non abbiamo però motivo per disperarci! È infatti in arrivo una nuova classe di farmaci, assai costosi ma, stando a quanto sostengono gli esperti, anche assai efficaci. Si tratta degli inibitori (anticorpi monoclonali) di PCSK9 (proproteina convertasi subtilisina/kexina tipo 9), proteina coinvolta nella degradazione del recettore delle LDL, che riduce la capacità del fegato ad eliminare il C-LDL (colesterolo LDL).
La rapidità con la quale la moderna medicina riesce a risolvere i nostri problemi è davvero sorprendente. Forse pari a quella con la quale riesce ad inventare nuove malattie. Ironia a parte, quale possa essere la reale utilità di questi prodotti (alirocumab e evolocumab sono le due molecole per il momento disponibili) non appare sufficientemente chiaro.
Risulterebbero efficaci nell’abbassare i livelli di colesterolo LDL, non sono però disponibili informazioni certe riguardo al loro effetto sulla mortalità e morbilità a lungo termine. Le reazioni avverse segnalate nel corso degli studi di registrazione sono state perlopiù di scarsa rilevanza, ma scommettere sull’attendibilità di questi dati sarebbe alquanto imprudente.
Un risultato sicuro, derivante da queste nuove direttive, è l’improvviso aumento dei “malati”: chi fino ad ieri appariva del tutto sano, oggi potrebbe non esserlo più. Non è escluso che in un prossimo futuro, continuando di questo passo, ci ritroveremo ad essere tutti affetti da patologie e bisognosi di farmaci.
Fiona Godlee, direttrice del BMJ, nel 2010 scrisse un articolo dal titolo senza sottintesi: "Siamo a rischio di essere a rischio?". Assistiamo ad un fenomeno ormai ben consolidato, conosciuto come “disease mongering”, ovvero la commercializzazione delle malattie, che vede protagonisti le multinazionali del farmaco, in primis, e specialisti compiacenti e che punta a consolidare il mercato della salute con l’attuazione di strategie atte a determinare l’aumento del numero dei malati e delle malattie.
Già nel 2002, il dr. Richard Smith, direttore per oltre 25 anni del BMJ, classificò più di 200 normali condizioni “trasformate” in malattie. Tra queste, erano incluse la vecchiaia, la menopausa, la solitudine, la cellulite, la noia, la calvizie e persino la nascita. In un’intervista rilasciata alla rivista americana “Fortune” nel 1977, l’allora direttore generale della Merck, Henry Gadsen, affermò: "Il nostro sogno è inventare farmaci per gente sana".
Sembra che il suo sogno sia divenuto realtà. Il marketing ha sostituito la Scienza.