Ciro, Dario, Serse, Artaserse… magari per i più giovani non sono più un’ossessione, ma i boomers ricordano la danza di questi nomi del conflitto greco/persiano, quando si doveva studiare storia: perché poi nei programmi scolastici italiani ci sia tale sovrabbondanza di vicende straniere affluenti, ha costituito la domanda e il nerbo delle imprecazioni studentesche, ma non importa, perché qualcosa era rimasto nell’aria: una sorta di fascinazione per quell’aura, quella dinastia, il trono del Pavone (dalla forma, originariamente mongolica), simbolo di sfarzo, potenza, carisma, terra di passaggio, di fede musulmana sciita.

L’Islam si suddivide in due sostanziali filoni, sunnita e sciita, e via altre derivazioni, a seconda dei territori e delle vicende belliche. Non c’è affatto monolitismo in questa fede, che annovera, tra i suoi capi carismatici, per esempio, l’imam da noi noto come imprenditore in Costa Smeralda, Karim Aga Khan, del ramo ismailita nizarita (per un po’ ebbe come matrigna Rita Hayworth, il papà era nato a Torino, nonna italiana).

Non complichiamoci la vita e torniamo a bomba. La Persia, o Iran ( polemiche interne su quale nome adottare), è un paese di gente colta e raffinata, anche nei suoi strati sociali meno abbienti e l’immagine che i media ne veicolano è distorta dalle vicissitudini del dopoguerra e la narrazione conseguente: cerchiamo di mantenere la distanza emotiva.

La dinastia Pahlavi è di recente installazione, un secolo più o meno ad oggi, visto che la stessa si ritiene ancora in essere, ma è stata obiettivamente sballottata dagli interessi occidentali per il petrolio e la funzione di corridoio geopolitico. Per questo forse, anche se non solo, Mohammad Reza, erede al trono, poi sovrano,  disarcionato, di nuovo rimesso in pista, non fu mai in grado di tenere mai veramente la presa sul paese, caracollando tra destini favorevoli e avversi, ivi compresa la sua vita privata. Anche per entrare in questo campo minato, ci dovremo aggirare tra nomi molto assonanti tra loro.

Nato nel 1919, uomo di fascino, non escluso il naso forte che pare caratterizzi quelle popolazioni e faceva di quei cittadini, statistiche ufficiali alla mano, i più assidui fruitori di rinoplastiche, in tempi non sospetti, Mohammad si sposò tre volte. 

La prima moglie, Fawzia, principessa d’Egitto, figlia e sorella di re, bellissima, sofisticata e già occidentalizzata, gli diede una figlia, Shahnaz, ma, insofferente a quella  corte, tornò alle piramidi accampando problemi di salute: la verità, per quanto riguarda lei, non si saprà mai nemmeno alla lontana. La figlioletta restò col padre, e in seguito il suo primo marito, Ashedir Zahedir, rivestirà le cariche di ambasciatore e ministro degli esteri durante la vigenza del suocero imperatore (non di molto più vecchio), a lui grato per aver contribuito, insieme alla CIA, a riposizionarlo in sella dopo essere stato spodestato dal socialista filorusso Mossadeq.

Divorziato trentenne, il regnante si mise in cerca di una nuova sposa, affiancato, ma secondo le cronache “controllato” dalla madre (protofemminista contraria al velo) e da due pestifere sorelle , la gemella Ashraf e Shams, che ne avrebbero controllato ogni passo, secondo un vieto pregiudizio sulle mediorientali intriganti e sobillatrici da harem. Si insiste a dire, ancor oggi, che la scelta questa volta fosse stata del nubendo, invaghitosi perdutamente di Soraya Esfandiary Bakhtiari, al punto di incaponirsi per le nozze, celebrate nel 1951.

La ragazza, padre iraniano, madre ebrea tedesca, somigliava effettivamente ad Ava Gardner e la sua giovanissima età faceva sperare in veloce e provvida procreazione di maschi, visto che per i Pahlavi vige la legge salica. All’inizio, stando a quanto dichiarato da lei stessa, il fatto che non arrivassero figli non preoccupò né lei e il marito, né il popolo: Mossadeq aveva vinto il suo round, mentre loro erano a Roma, praticamente esuli, lo stress li stava travolgendo e dopotutto c’era tempo. Ma quando, ritornati a regnare, l’infertilità persistette, i mormorii si fecero ciclone sempre, secondo i pettegoli, fomentati dalle terribili cognate. Checché se ne dica, i coniugi, innamoratissimi, fecero di tutto per favorire il concepimento, peregrinarono per le migliori cliniche specializzate, ma non ci fu nulla da fare.

Ora, va detto che, benché la fede islamica non fosse mai stata messa in discussione a tutti i livelli, la laicizzazione dei costumi a corte, e nelle alte sfere,  era evidente, e la poligamia da escludere. Reza sperò in una concessione della moglie, una sorta di scappatella istituzionalizzata e ammessa ritualmente, ai soli fini riproduttivi: respinta con sdegno da lei, che preferì essere ripudiata, nel 1958, con esorbitante liquidazione e vitalizio.

Sempre in base alla vulgata Soraya, triste e depressa, vagò per il jet set in cerca di un pizzico di felicità mai trovata, guadagnandosi l’appellativo di principessa triste. E’ certamente vero che lo smacco dovette farsi sentire, ma la questione è più sfumata.

La bellissima fu invitata da Dino de Laurentis a buttarsi nel cinema, proposta accettata, inaugurando un rapporto speciale con l’Italia. Nella conferenza stampa di presentazione, ai giornalisti che  lamentavano il mutismo della futura attrice, il grande produttore rispose che si trattava di timidezza, ricevendo un coro di ilarità. L’esperienza comunque fu un fiasco e la principessa, dopo una giostra di amorazzi, trovò l’appagamento sentimentale con il regista siciliano Franco Indovina, peraltro ancora formalmente sposato. Gli indiscreti domestici romani di Soraya ebbero a dichiarare che la donna era particolarmente irritabile quando nei paraggi c’erano dei bambini. Purtroppo Indovina morì nell’incidente aereo di Punta Raisi, a Palermo, nel 1972, e allora la malinconia ebbe davvero il sopravvento nello sguardo di lei.

Nel 1979, dopo la rivoluzione teocratica, pare che il cospicuo assegno mensile dell’ex consorte sia stato in pericolo, ma alla fine la situazione dovette ristabilirsi e la principessa navigò più o meno bene ( problemi di alcolismo) fino alla morte, nel 2001.

Probabilmente esasperato per la situazione ereditaria in stallo, Reza conobbe Farah Diba, a Parigi. Figlia di un dignitario di corte, studi in scuole multiculturali (anche italiane), una passione per l’arte e iniziali frequentazioni della facoltà di architettura alla Sorbona, la ragazza, dopo l’approvazione delle cognatine ( qualche maligno sostiene, buttata nelle braccia del fratello proprio da loro), accettò la proposta di matrimonio: gli sponsali si tennero nel 1959, lei ventenne.

Finalmente, a stretto giro, nel 1960 nacque l’erede, Reza Ciro, seguito da due sorelle e un fratello. La fertile Farah divenne imperatrice con la fastosa cerimonia di incoronazione del coniuge nel 1967: un’esibizione di fasto smodato, già visto nelle cerimonie nuziali, che suscitò qualche chiacchiera, ma fu seguito in tutto il mondo: le famiglie, in Italia, si riunirono davanti alla televisione per assistervi.

Il neo imperatore non sarà stato un marito esemplare, come ebbe a raccontare la starlette austriaca Marisa Mell (morta in povertà), che ne vantò i favori, tuttavia il matrimonio era assestato per la durevolezza e una buona portanza per le sorti future, ma solo quello: intorno alla famiglia si addensavano nubi, accuse di filoamericanismo sfrenato, di violenza poliziesca, di eccessivo lassismo dei costumi delle classi alte (si vedevano in giro minigonne e film spinti, per quei criteri culturali). La Diba avrà a dichiarare di essersi adoperata per il miglioramento delle condizioni sociali, l’emancipazione femminile, la diffusione della cultura, al punto di accettare il “tu” dai suoi sudditi, ma a nulla era valso, anzi fu controproducente. Nel difendere l’operato del marito e denunciare l’irriconoscenza dell’occidente che tanto era stato spalleggiato dall’imperatore, ella usò la frase “on est foutu de lui”: gli alleati  avevano voltato le spalle a un loro fedele sostenitore.

Nel 1978 tutto sembrava quieto; ai campionati del mondo di calcio in Argentina il principino Ciro volò dalla squadra nazionale qualificatasi e la incoraggiò palleggiando con i giocatori, ma il temibile e corrusco Ayatollah Khomeyni, esiliato in Francia e, si insinua, dalla nazione ospitante appoggiato ( dottrina Mitterrand in fieri), tramava.

Va detto che il religioso all’inizio era stato quasi beneficato dal nuovo shah, negli anni cinquanta; ma per  l’impostazione imperiale progressista e dopo un primo tentativo  di colpo di stato clericale, lo Stato aveva requisito molti beni e fonti di reddito a codesti ecclesiastici islamici: insomma, una questione altrettanto di danaro quanto di principio, si direbbe.

Sappiamo come andò, in quel 1979. Il genero ministro racconterà, molti anni dopo, e con lui diversi dipendenti di corte, ministeriali, aderenti al trono, che tutto avvenne a precipizio: si dovettero abbandonare case e uffici quasi di corsa, e tra i profughi si contò la famiglia imperiale.

Sarà certamente vero che è meglio piangere in Rolls Royce che in autobus, ma chi c’era ricorda il vagabondaggio di Mohammad Reza, moglie e figli, quando nessun paese, a braccetto fino a poco prima, li voleva ospitare, quasi appestati: finché si impietosì il presidente egiziano Anwar Al Sadat il quale, due anni dopo, verrà ucciso, in base ai resoconti più in voga, proprio per tale appoggio.  Al Cairo l’imperatore si spegnerà l’anno dopo, e almeno non vedrà la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq, che scoppierà di lì a poco.

I Pahlavi alla fine trovarono ostello negli USA e sparirono dai radar, anche perché minacciati da Khomeyni (un parente fu ucciso a Parigi). Diverse ipotesi vennero avanzate dopo il disastro aereo del volo Iran Air 655 Teheran/Dubai, nel 1988, ma tutto rientrò e fu catalogato come errore missilistico americano, con i dovuti risarcimenti.

Il principe Reza Ciro animò la resistenza espatriata, confidando in un rapido rientro, ma le speranze cessarono presto. I danari non mancavano, i ragazzi studiavano; Ciro si sposò con una ragazza figlia di esuli di lusso contrari al nuovo regime, da cui ha avuto tre figlie: la sua primogenita, Noor,  è una icona fashion per gli araboamericani (anche se gli iraniani protestano discendenze ariane e non arabe) e il papà, sempre nel virtuale mondo monarchico, pensa ad abolire la legge salica per farne una pretendente al trono. Nessuna particolare notizia è mai arrivata sul conto dell'altra sorella di Reza, Farahnaz, nata nel 1963.

Mamma Farah, rigidamente single benché vedova ancor giovane e avvenente, faceva la nonna e , ogni tanto, veniva immortalata quando la invitavano a matrimoni principeschi: ma la ritrovata serenità fu spezzata due volte, brutalmente.

Nel 2001 l’ultimogenita Leila, nata nel 1970, morì in circostanze controverse. All’inizio si parlò di suicidio per defenestramento, in seguito ha preso piede la versione di overdose da farmaci e teniamola per buona. La piccolina, autentica cocca del babbo, che la abbraccia teneramente in vecchie foto, a quanto pare aveva particolarmente sofferto del mobbing, pur dorato, e del sostanziale isolamento in cui la casata era stata reclusa. Nel gennaio 2011 fu il terzogenito Alì Reza, nato nel 1966,  a decidere di farla finita, sparandosi al capo e rinunciando alla gioia di diventare padre. La sua compagna partorirà una bambina nel luglio successivo.

L’idea di una fatale maledizione è da romanzo, ma la sfortuna non è davvero mancata ai Pahlavi. Quanto al giudizio storico/politico, gli eventi successivi avranno fatto riflettere tutti noi.