La Turchia alle urne tra simbolismo ed equilibri
A cura di Vanni Barsocchi, Gabriele D'Angiolo e Paolo Sarti
1923-2023: i cento anni della Repubblica
A cento anni dalla proclamazione della Repubblica da parte di Mustafa Kemal, la Turchia si trova oggi come allora ad un possibile spartiacque per la propria storia: restare al fianco di Erdogan, uomo che da 20 anni ha in mano le chiavi della politica anatolica e che è stato capace nel bene e nel male di valorizzare quanto più possibile la posizione di Ankara sullo scacchiere internazionale; oppure svoltare verso una figura, quella di Kiliçdaroglu, che da quando è all’opposizione si è sempre battuto affinché la democrazia e le libertà politiche e civili potessero essere considerate delle solide realtà all’interno della Repubblica.
Questa tornata elettorale assume un carattere epocale in quanto scontro tra due modelli istituzionali tra loro contrapposti (presidenzialismo e parlamentarismo), e perché è la prima dopo un lungo periodo di tempo dove si ha una vera e propria competizione tra i due candidati.
La sfortunata coincidenza
La situazione che si è profilata in questi mesi ricorda molto quella che si andò a formare post-1999, ovvero dopo il terremoto che scosse la Turchia occidentale e che fece circa 17.000 vittime.
Forte fu lo sdegno della popolazione nei confronti del governo allora guidato da Bulen Ecevit, accusato di aver mobilitato con ritardo i soccorsi, ed in generale verso la classe politica, che non era stata capace di fronteggiare un evento sì tragico, ma non imprevedibile. Alle elezioni parlamentari del 2002 uscì vittorioso un partito nato appena un anno prima, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) che intendeva rappresentare la destra liberale del paese, ispirata a principi religiosi non estremi. L’AKP riuscì ad ottenere la fiducia del corpo elettorale turco grazie alle critiche riguardanti la gestione del terremoto, ed alla promessa di iniziare un processo di modernizzazione e democratizzazione del Paese, basato sulla trasparenza. Il suo leader, Recep Tayyip Erdoğan, dal 2003 ad oggi ha sempre ricoperto posizioni di vertice e, ironicamente, proprio la malagestione del terremoto che ha scosso la Turchia il 5 febbraio potrebbe costargli la rielezione fino al 2028.
I numeri parlano da soli: 57000 vittime e 100 miliardi di dollari di danni. Lo sviluppo edilizio è stato il motore della crescita economica turca negli ultimi 20 anni, ma è stato incontrollato e speculativo; l’alto numero di condoni edilizi, fondi infrastrutturali mal investiti ed il ritardo dei soccorsi sono le principali accuse rivolte al governo. Erdogan ha assunto un atteggiamento meno esuberante rispetto ad altre situazioni, e si è in parte preso la responsabilità della gestione del terremoto, anche in ottica elettorale, presentandosi come l’unico politico capace di mantenere la stabilità del Paese e di riportarlo allo splendore.
I temi caldi in vista del 14 maggio
Terreno di scontro tra Erdogan e l’opposizione è il sistema istituzionale stesso: nel 2017 fu promosso dal governo un referendum costituzionale atto a rendere la forma di governo da parlamentare a presidenziale. Una volta passato, questo referendum ha fatto sì che sparisse la figura del Primo Ministro e che ci fosse un forte accentramento dei poteri nelle mani del Presidente della Repubblica, carica ricoperta dal 2018 da Erdogan. La figura del Presidente, oltre che assumere le prerogative precedentemente spettanti al Primo Ministro, ha facoltà di nominare i vertici delle forze armate, alcune alte cariche della magistratura ed i rettori delle università.
È risultato particolarmente ridimensionato il ruolo storicamente ricoperto dall’esercito, considerato come “guardiano” dei valori kemalisti ed occidentali della Repubblica, soprattutto in reazione al tentato golpe del 2016.
L’opposizione guidata da Kiliçdaroglu è intenzionata a tornare ad un sistema parlamentare, in quanto crede che il presidenzialismo non abbia fatto altro che polarizzare ulteriormente il paese e favorire l’autoritarismo del governo. Il problema è come questo ritorno al precedente assetto dovrebbe avvenire, cosa che la coalizione, detta “Il Tavolo dei Sei”, ha omesso di specificare: questo genere di cambiamenti richiedono molto tempo, ed inoltre l’apparato burocratico (e mediatico) turco si metterà probabilmente di traverso di fronte a questa scelta, in quanto composto da molti membri ancora fedeli all’AKP. La volontà di cambiare leadership e quella di tornare al parlamentarismo sono, de facto, gli unici punti che accomunano i partiti che supportano Kiliçdaroglu, i quali spaziano dalla destra nazionalista alla sinistra post kemalista.
I motivi di accordo sopracitati sono troppo deboli per garantire un governo di lunga durata in caso di vittoria. La promessa di voler ristabilire le libertà civili e politiche inoltre potrebbe rimanere tale, qualora Kiliçdaroglu decidesse di utilizzare gli stessi metodi del suo predecessore per affermare ancora di più la propria posizione al comando; la storia politica turca è costellata di purghe atte a creare cesure tra i propri predecessori e la direzione politica del momento.
Probabilmente la partita più importante si giocherà sul campo dell’economia, da anni non più il fiore all’occhiello dell’AKP, ma che anzi nel 2019 è stata campanello d’allarme per Erdogan alle elezioni amministrative, in quanto il governo delle due maggiori città del Paese, Ankara ed Istanbul, è passato a partiti dell’opposizione proprio in un periodo di recessione. La gestione non ortodossa dell’inflazione da parte della banca centrale attraverso tagli ai tassi di interesse, l’aumento della spesa pubblica al fine di portare avanti politiche populiste ed una disoccupazione a doppia cifra sono solo alcune delle cause del crescente malcontento della popolazione nei confronti del governo, e non sono assolutamente da sottovalutare. Qualora Kiliçdaroglu si appiattisse troppo sulle proposte economiche dell’AKP, probabilmente perderebbe gran parte del voto della classe lavoratrice, a cui non è stata praticamente mai offerta una vera e propria alternativa di sinistra.
La questione dei profughi siriani e della normalizzazione dei rapporti con la Siria è un punto su cui entrambi gli schieramenti si trovano in accordo; sulla questione dei profughi è Kiliçdaroglu che segue il fervente sentimento nazionalista di Erdogan, che da tempo promette il rimpatrio di circa un milione di siriani, mentre per quanto riguarda la normalizzazione dei rapporti con Damasco è Erdogan che si è spostato sulle posizioni dell’opposizione.
Altro elemento che potrebbe fare da ago della bilancia è il voto curdo rappresentato dall’HDP, formazione appunto filocurda e progressista, che rappresenta il terzo partito in parlamento, e dunque un ampio bacino elettorale; la decisione di non presentare un proprio candidato presidenziale è un chiaro endorsement alla candidatura di Kiliçdaroglu. Quest’ultimo deve stare però molto attento a non sbilanciarsi eccessivamente in favore della causa curda, in quanto i partiti nazionalisti all’interno della sua coalizione vedrebbero tale avvicinamento come un pericolo per l’unità nazionale poiché accostano l’HDP al PKK, formazione politica che ha compiuto attentati terroristici con lo scopo di rendere autonoma la minoranza curda in Turchia.
La politica estera
L’orientamento in politica estera dei due candidati è riassumibile negli incontri fatti i primi giorni di aprile: Kiliçdaroglu si è incontrato negli uffici del CHP con l’ambasciatore USA in Turchia Jeffry L. Flake, mentre Erdogan in tutta risposta una settimana dopo si è consultato assieme al ministro degli esteri russo Sergej Lavrov.
L’incontro Flake-Kiliçdaroglu ha permesso ad Erdogan di mostrarsi come unico vero rappresentante del sentimento nazionalistico presente in Turchia, in quanto la popolarità dello zio Sam ha raggiunto negli ultimi tempi i minimi storici. I rapporti diplomatici, culturali e commerciali tra Turchia e Russia sono storicamente buoni, e a dimostrazione di ciò abbiamo l’intensa attività diplomatica portata avanti da Erdogan stesso nei primi mesi del conflitto russo-ucraino.
Un eventuale cambio di leadership da Erdogan a Kiliçdaroglu potrebbe però cambiare questa tendenza: infatti, le maggiori libertà civili e politiche promesse da quest’ultimo sposterebbero nettamente la Turchia in campo occidentale, tant’è che potrebbe addirittura riprendere l’iter per l’ingresso all’interno dell’Unione Europea.
In ogni caso, è molto difficile che si abbiano sostanziali cambiamenti nei vettori fondamentali della politica estera turca, poiché da un punto di vista elettorale, qualunque dei due candidati non considerasse il fervente sentimento nazionalista insito nella popolazione turca, pregiudicherebbe quasi sicuramente la propria vittoria alle elezioni. I principali dossier aperti sono: la normalizzazione dei rapporti con la Siria, iniziata soprattutto in seguito al terremoto e destinata a concretizzarsi sempre di più, il mantenimento del ruolo di mediatore giocato finora nel conflitto russo-ucraino, il potenziamento dei rapporti con i paesi del Golfo, che garantisce un ingente cashflow nelle casse turche, il perseguimento della Mavi Vatan (“La Patria Blu”, la dottrina strategica turca riguardante il controllo dei mari) ed infine il controllo della Libia.
Conclusioni
Al netto dei sondaggi condotti fino al 27 aprile, le parti si trovano in una situazione di stallo, un testa a testa dove né Erdogan né lo sfidante Kiliçdaroglu godono di margine sufficiente per assicurarsi il risultato elettorale al primo turno. In aggiunta, un improvviso malore lo scorso 25 aprile avrebbe obbligato Erdogan ad annullare la sua partecipazione ad alcuni importanti eventi pubblici per il resto della settimana, costretto ad intervenire con un video all'inaugurazione del reattore nucleare ad Akkuyu, evento a cui ha partecipato in streaming anche Vladimir Putin, essendo un progetto della russa Rosatom. Questo ha riacceso le speculazioni sul reale stato di salute del premier turco, tema che era già emerso in più occasioni a partire dal 2006. Il risultato del 14 maggio sarà decisivo per decretare o meno il riallineamento di Ankara con l’Occidente, ed una possibile apertura alla minoranza curda; però non possiamo aspettarci né un cambiamento drastico dell’establishment che si è consolidato negli ultimi 20 anni di governo dell’AKP a guida Erdogan, né una frenata del disegno imperialistico turco, che continua a volersi affermare come attore principale nel contesto del così detto “Grande Medio Oriente”.
Fonti
- La Turchia contemporanea – Dalla repubblica kemalista al governo dell’AKP, Lea Nocera, 2011
- La proiezione esterna della Turchia di Erdogan. Tra ambizioni internazionali e consolidamento della politica regionale, Osservatorio di Politica internazionale (a cura di Geopolitica.info), ottobre 2022
- La Turchia al voto: quali saranno gli equilibri futuri del Paese? Geopolitica. Info, seminario del 14/04/0223
- Mediterraneo allargato n.2 2023, Osservatorio di Politica internazionale (a cura di ISPI)
- Mediterraneo Allargato n.8 2018, ISPI
- Dalla Russia (alla Turchia) senza amore, Daniele Santoro (Limes) 11/04/2023
- Ankara e Gerusalemme condannate a piacersi, Daniele Santoro (Limes) 13/04/2023
- What if Kiliçdaroglu wins Turkey’s elections? Steven A. Cook (Foreign Policy) 14/04/2023
- Turkey’s Opposition Can’t Win Without the Working Class, Halil Karaveli (Foreign Policy), 17/04/2023
- Czech ambassador: Turkish foreign policy won’t change if opposition wins, Aneta Zachova (Euractiv), 16/04/2023
- ‘They’ve screwed the economy’: Turkey’s heartland voters tire of Erdoğan, Adam Samson (Financial Times), 12/04/2023
- Ailing Erdogan tries to project health in video link appearance with Putin, AFP (France24.com), 27/4/2023
- Notizie dal mondo limesonline 27/04/2022 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-turchia-erdogan-akkuyu-russia-romania-sudan-argentina-cina-arabia-saudita/131944
Crediti immagine: Euronews