Azzardo una previsione per i posteri. Dico che tra qualche secolo le frustrazioni dell’uomo non dipenderanno più dal lavoro che non ottiene, non piace, o fa guadagnare poco. Egli troverà frustrante che le sue qualità e doti non riescano a fornire contributi migliori rispetto a quelli di altri suoi simili.

La competizione, anche se non è congeniale alla natura dell’essere umano, è un ricordo genetico del suo percorso: un’arma che ha dovuto forgiare e affinare per necessità. Scrollarsela di dosso richiederà più tempo rispetto ad altre forme di rivoluzione culturale interiore e sociale. Ma ha certamente più senso competere per essere il migliore attraverso i propri talenti naturali, piuttosto che farlo solo per conquistare una posizione in una società completamente sbagliata come la nostra.

Perché a un certo punto accadrà: non ci si dovrà più preoccupare di portare il pane a casa ma ci si preoccuperà di come poter essere bravi, utili, efficaci, creativi, ingegnosi. E la competizione vivrà solo su questo versante.

Questa “competizione” oggi è riservata a pochissimi talentuosi privilegiati. E diventano dei veri e propri “eletti” in quei casi, ancor più ristretti, di coloro che si sono sbarazzati anche della competizione, operando con spirito di sola cooperazione. A tal punto non conta più nemmeno il contributo del singolo ma solo il risultato complessivo.

Non si sa se Ramanujan avesse in mente di competere o cooperare. A naso direi la seconda. Fatto sta che il suo talento non l’ha potuto esprimere pienamente per come si deve, e ci siamo così privati di uno degli innumerevoli geni della storia. Come oggi ci priviamo di chissà quanti altri: tra milioni di vocazioni che finiscono a forzarsi in altre discipline, e veri geni che fanno la fame.

Srinvasa Ramanujan è stato ostinato; in parte fortunato, anche se per breve tempo, di trovarsi nel tempo giusto e arrivare a qualcuno dei pochi luminari dell’epoca. Non c’era l’inflazione odierna di esperti e pseudo tali in qualunque campo. E c’era pure molta più apertura in campi decisamente tabù come la matematica, dove Ramanujan eccelleva, a dir poco. Oggi non esiste studente in matematica o ricercatore che non conosca i contributi incredibili che ha fornito questo illustre indiano che ha patito la fame ed è morto giovane.

Il matematico Hardy, suo mentore, lo paragonò a Newton e perfino a Eulero, come racconta Bertrand Russell che ne fù anch’egli sostenitore. Ma oltre a portarlo a Cambridge, dove Ramanujan divenne anche professore e membro della prestigiosa Royal Society, non si poté fare di più. Ramanujan lavorò a Cambridge perché nella sua India non trovò sbocchi, e in quell’ambiente diverso, non familiare, complicato anche per la sua dieta vegetariana, e dove veniva frequentemente criticato e osteggiato, peggiorò la sua già cagionevole salute. Morì un anno dopo essere ritornato dalla sua famiglia in India.

In patria, allora colonia britannica, non poté esprimersi perché oltre a essere povero era considerato analfabeta, e per questo snobbato dalla comunità dei matematici indiani. Non terminò nemmeno le superiori, e ogni tentativo di scavalcare gli ostacoli con un percorso universitario lo portava a fare i conti col suo disinteresse per qualunque altra materia che non fosse la matematica.

Lui non chiedeva nulla: «Datemi solo pochi soldi per vivere, così che io possa continuare le mie ricerche», così dichiarò Ramachandra Rao, tra i fondatori della Indian Mathematical Society. Ma non fu possibile. Dovette recarsi a Cambridge, dove visse infelice e produsse un nonnulla rispetto al potenziale incompreso che aveva in quella sua mente vivace. Una sintesi della sua vita la si può conoscere attraverso un recente film che gli è stato dedicato nel 2015: “L’uomo che vide l’infinito”.

La società di ieri, come di oggi e di ogni paese, Italia e occidente compresi, che piegano gli individui a regole economiche medievali, subissando i talenti nel limbo della povertà, dell’isolamento, o dei compromessi impossibili che annichiliscono voglia, entusiasmo e salute.

A Ramanujan e infiniti altri non interessano l’accumulazione di privilegi e fortune, ma unicamente la possibilità di esprimere il proprio potenziale e poter contribuire al genere umano. E lo potrebbero fare se avessero quel R.B.U., Reddito di Base Universale, che non li obbligherebbe a cercarsi un lavoro qualunque pur di vivere, e far arricchire qualcuno. Li metterebbe in condizione di fare (“provarci”, non mi piace), nella loro dimensione ideale di tempo, luogo e comunità. E non li renderebbe apolidi e girovaghi inzuppati in una minestra insipida, piatta, uguale per tutti.

L’assioma del “non si danno soldi senza nulla in cambio” è sciocco, immotivato, subliminale. Instillato nelle menti elementari - mantenute tali - come per qualunque messaggio utile al sistema. Qualcuno ha provato a farne tesi, anche nomi illustri, ma scivolando rovinosamente dagli specchi rigati sui quali si arrampicava, arzigogolando dialettiche intrise di luoghi comuni e privi di qualsiasi studio e dato apprezzabili. Viceversa, non si contano le vere tesi sul fronte pro-RBU, e perfino gli esperimenti sociali già più volte svolti in diversi paesi al mondo, che confermano la premessa alla base di tali tesi: la natura umana è programmata per il fare, e non per starsene sui divani, a prescindere dal compenso.

Giusto per non lasciare Bertrand Russell solo come sostenitore di Ramanujan, possiamo dare a quest’altro illustre matematico, filosofo e attivista, il tributo di citare anche una delle sue opere in tema: “Elogio dell’ozio”, su una pletora di altri documenti anche contemporanei di cui potremmo parlare. Quella di Russell è stata una raccolta antesignana di dura critica, a tratti sarcastica, alle ingiustificate lodi sulla fatica, sul lavoro, sull’esigenza di affrancarsi quanto più possibile da esso e dai significati errati che gli sono stati attribuiti, anche grazie al progresso tecnologico (e oggi  ci si lamenta pure che l’abbiamo acquisito, tale progresso, che metterebbe a rischio posti di lavoro…).

Ma circa duemila anni prima Seneca si “congedava” dallo Stato corrotto riflettendo nel suo “De otio” (“Sull’ozio”, volgarmente) sulla necessità di dedicarsi alla vita contemplativa. Questa era peraltro la biòs theoretikòs di cui ancor prima parlava Aristotele. E poi Epicuro, Orazio, Dante, Petrarca, Erasmo Da Rotterdam, ma se volete saperne di più vi consiglierei una lettura scorrevole come “Ars vivendi - L’ozio degli antichi”, di Giulio de Martino (2007, Intra Moenia).

Se poi il RBU sia utopia o meno, trovate altrettanti e serissimi studi. Della sua finanziabilità ve ne parlerò anch’io nella lunga monografia “Riforme”, di cui sono stati già pubblicati i primi 3 capitoli.

A rallentare il progresso non bisogna starci. Perché i Ramanujan sono davvero tanti, e solo una parte infinitesimale riesce a emergere nonostante le difficoltà. Pensate che tra questi infinitesimi fortunati un giovanissimo talento italiano se l’era vista brutta qualche anno fa, fallendo il test di ammissione a medicina. Però lui, Giuseppe Bungaro, era già un fenomeno della medicina e aveva inventato un innovativo stent coronarico, ancor prima di finire le scuole superiori. Grazie alle sue inclinazioni frequentava abitualmente un reparto di cardiochirurgia ospedaliera assistendo anche agli interventi chirurgici. Uno dei tanti enfant prodige che il sistema è pronto ad affossare, ma che hanno perlomeno la fortuna di incontrare mentori che ci mettono una pezza.

Non sempre il talento è così evidente e si manifesta con intensità abbagliante. Ma che lo sia o meno, il RBU è sempre soluzione.


📸 base foto: Sunny Labh, divulgatore scientifico su cantorparadise DOT com. La formula rappresentò una straordinaria rivoluzione, e una base, per il calcolo del “pi” greco.