Forse non tutti sanno, ma dovrebbero saperlo, che gli uomini e le donne in ‘divisa’ – militari, carabinieri, poliziotti, finanzieri, penitenziari, ecc. – hanno diritto alla pensione al compimento del 60esimo anno di età.
Questo è un diritto giusto e sacrosanto per chi effettua un mestiere usurante e mette ogni giorno ad alto rischio la propria vita per combattere in prima linea mafia, camorra, criminalità e delinquenza.
Fin qui, tutto bene. Ma c’è un aspetto meno noto che solleva non poche perplessità: questo trattamento previdenziale è garantito anche a coloro che, anziché prestare servizio operativo sul territorio o in situazioni di rischio, hanno trascorso l’intera carriera dietro una scrivania, svolgendo mansioni esclusivamente burocratico-amministrative.
E qui emerge il paradosso. Negli stessi uffici, uomini e donne in divisa eseguono compiti identici a quelli dei colleghi civili, con una differenza cruciale: il militare si congeda a 60 anni, mentre il civile, per legge, dovrà attendere fino a 70 anni, più il calcolo della speranza di vita.
Una disparità di trattamento che fa discutere. Da un lato, penalizza i lavoratori civili, obbligati a prolungare la loro vita lavorativa pur svolgendo le stesse identiche funzioni dei colleghi in divisa. Dall’altro, rischia di offendere proprio chi, ogni giorno e ogni notte, festivi inclusi, indossa la divisa e mette a repentaglio la propria vita.
Questa situazione solleva domande di equità che non possono essere ignorate:
è giusto applicare lo stesso trattamento previdenziale a chi affronta quotidianamente i rischi e le fatiche del lavoro operativo sul campo e a chi, invece, svolge mansioni esclusivamente d’ufficio, al riparo dalle insidie e dall’usura fisica e mentale tipiche dei servizi in prima linea?
Questo è l’interrogativo che meriterebbe di trovare spazio nell’agenda politica dell’esecutivo.
La questione non riguarda solo i diritti dei singoli, ma la coerenza di un sistema che dovrebbe distinguere, in termini di tutela, tra chi affronta quotidianamente fatiche e rischi sul campo e chi si dedica a compiti amministrativi, pur essendo parte dello stesso apparato.
Un nodo da sciogliere, che chiama in causa i principi di equità e giustizia sociale, oltre ad un necessario confronto sulle regole che definiscono il sistema previdenziale italiano.