Cultura e Spettacolo

Che cittadini siamo?

Concediamoci quest’intermezzo culturale che può agevolare utili riflessioni, ancor meglio se state seguendo la mia scorribanda in campo costituzionale legata ai temi dei lavoratori (rectius: cittadini).

Che cittadini siamo?

Conoscere il proprio ruolo nel paese in cui si vive può aiutare nelle scelte che determinano l’organizzazione e il funzionamento del paese stesso. Se invece si è solo interessati a “campare” e tentare di acchiappare qualunque diversivo più o meno ludico o consolatorio, allora  questa riflessione non sarà di nessun interesse. Non perdeteci tempo.

Chiedendo a me stesso se sono un cittadino/lavoratore “super ricco” posso serenamente rispondere di no. E senza “purtroppo”, perché mi sta benissimo così. E dunque comprendo il mio limite di non poter condizionare nessun elemento della società politica ed economica; trovandomi in un sistema democratico posso solo partecipare compiendo le scelte che tale sistema mi consente, come votare.

Anche voi vi ritrovate in questa descrizione? Se così fosse: benvenuti!
Noi siamo quelli che non abbiamo alcun potere economico. Magari ce la passiamo anche molto bene finanziariamente, ma la “stanza dei bottoni” è ben lontana dalla nostra portata.

Un potere economico è logicamente in grado di influenzare la politica. Se poi quel potere è smisurato diventa vero e proprio assoggettamento di politica, società ed economia. Si può decidere di cosa si debba occupare la scienza e quali siano le urgenze dei cittadini. Cercateli pure su Google i super ricchi italiani e mondiali che hanno tale potere economico, più o meno smisurato.

Questa è una constatazione molto banale. Lo sappiamo tutti.

Ma è una anomalia.
Una nota anomalia delle democrazie neoliberiste. Una sfida notevole per pochi cittadini che comprendono lo sfacelo a cui si va incontro anno dopo anno. Una lotta assolutamente impari, ma assolutamente da fare.

Rousseau aveva sintetizzato un concetto che oggi è più che mai attuale: «La Democrazia esiste laddove non c'è nessuno così ricco da comprare un altro e nessuno così povero da vendersi». E’ anche questa un’osservazione molto elementare da comprendere. Ci si vende per necessità, barattando principi e accettando compromessi di ogni genere, purché si viva o si superi qualche ostacolo. Ed è molto strano che questa condizione di palese schiavitù non venga elaborata dal cittadino non “super ricco”, determinandosi nelle sue scelte elettorali alfine quantomeno di evitare che questo sistema anomalo si consolidi ad ogni legislatura.

Il cittadino non è impotente. Egli vive pur sempre in una democrazia, che per quanto  preda del potere economico gli consente ancora di esprimere una preferenza determinante: scegliere i propri rappresentanti politici. Questo è un potere enorme! Ed è esercitato malissimo quando si fanno scelte che portano al governo chiunque consolidi quest’anomalia che permette a chi sta meglio di comprare chi sta peggio.

Lo comprendiamo questo?

Se il cittadino ritiene che sia corretta un’azione di governo che favorisca la tal cosa, consolidando i super ricchi in grado di manovrare la politica stessa e le scelte economiche e sociali, allora va bene così. Mi chiedo però quanto sia ragionevole questo. Sicuramente può esserlo per i “super ricchi” stessi, oppure per chi ha l’ambizione e le potenzialità (e non il mero sogno) di diventarlo, partendo naturalmente da una buona posizione.

Ma se il cittadino siamo noi: pensionati, operai, impiegati, medici, professionisti affermati, o piccolo/medi imprenditori, continua a essere ragionevole?

La ragionevolezza è insita nel vantaggio che queste altre classi di cittadini, non super ricchi, e nemmeno potenziali tali, potrebbero trarre da governi che continuano a non limitare la ricchezza cumulabile. Da governi che insistono nel non applicare formule di tassazione progressiva che colpiscano grandi capitali, fondi d’investimento e operazioni finanziare miliardarie.

Qui credo che tutti, all’unanimità, diremmo: «In effetti nessuno di noi “normali” ne trae  vantaggio!». Viceversa, si trarrebbe vantaggio dai limiti e dalla tassazione progressiva, arricchendo le casse dello Stato per la redistribuzione, che fa abbassare le tasse per tutti gli altri – anche per i ricchi, ma senza “super” –  e si aumentano qualità e quantità dei servizi.

L’ennesima cosa semplice da capire!

Ma subito dopo andremmo a constatare che politiche di equità così spinte farebbero fuggire questi “super ricchi”, e comunque li scoraggerebbero dall’investire nel nostro paese. Politiche che verrebbero ostacolate anche dall’UE, perché un’Italia che rischia d’indebolirsi economicamente diventa una serissima minaccia per l’intera economia Europea. In altre parole: se l’Italia chiedesse più soldi ai propri “super ricchi” questi fuggirebbero via e non ci darebbero nemmeno quel poco di oggi.

Non male questa storiella che viene sovente narrata e manda nel pallone i cittadini. In principio, è banale dirlo, anche se fosse un reale problema si dovrebbe comunque affrontare. Non credete? E che sia un problema nessuno lo nega; che sia complicatissimo, invece, fa parte della storiella.

Ora qui partirebbe una mole argomentativa notevole, con molteplici soluzioni teoriche a contrasto della storiella. Potremmo anche farlo, ma preferisco invece l’esame di qualche caso pratico. Quello russo, ad esempio, “devastato” dalle sanzioni economiche dei governi di mezzo mondo e dei “super ricchi” (“obbligati”) dai loro relativi paesi. Le contrazioni ci sono, ma abbastanza ridicole; certamente non hanno messo in ginocchio la Russia. Dispiace immensamente perché la sua aggressione non demorde, ma è l’esempio di come ci si possa organizzare per resistere a qualunque guerra finanziaria globale.

Oppure prendiamo un piccolo staterello con risorse praticamente a lumicino ed economicamente esposto e vulnerabile. Nulla a che vedere con la “grande” Russia. Parliamo dell’Islanda, del crack a tappeto delle sue banche nel 2008, della bocca asciutta di Olanda e Gran Bretagna che avevano accumulato crediti miliardari nei confronti dell’Islanda, ma che questa decise – motu proprio – di non pagare. In pratica si auto cancellò il debito (“Islanda: rivoluzione silenziosa”, in “Lessico del XXI Secolo”, Treccani, 2012).

Grandi cose, queste. Mentre noi qui parliamo solo di piccoli passi da fare, anche sopportando qualche inevitabile spallata finanziaria. Ma non divaghiamo oltre: era giusto per raccontare qualche storiella diversa rispetto a quella dell’impotenza politica sul potere monetario privato globalmente costituito, e in continua (inarrestabile?) espansione.

A noi qui interessava soltanto capire l’aspetto culturale della questione. Capire da che parte stiamo esattamente, o ci conviene stare. Era proprio la domanda iniziale: che cittadini siamo? Che testa abbiamo?

Forse ora lo sappiamo. Il resto, s’è del caso, lo riprendiamo nella “scorribanda” in corso, come accennavo in premessa.


Base foto: Dipinto fiammingo del XVII secolo (pubblico dominio)

(Altre Informazioni)
Autore P. Giovanni Vullo
Categoria Cultura e Spettacolo
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