Ognuno di noi voleva sembrare migliore di com’era realmente, ma tutti avevamo le tasche piene di anomalie. Ci truccavamo di giorno per nasconderle, ci tormentavamo la notte perché incapaci di rimuoverle.
Sembravamo bellissimi. Parlavamo il conformismo dialettico usando sigle e gesti. Accorciavamo le distanze con infusi di citazioni di cui, talvolta, confondevamo l’autore. Nelle viscere del benessere, occultavamo ulcere e malanni, collezionavamo protesi e prolungamenti. Avevamo le risposte, le soluzioni, generavamo identità e splendevamo di luce nostra. Eravamo una grande famiglia.
Avevamo gli amici a posto e le cravatte giuste. Essere invidiati ci galvanizzava.
Eravamo maestri di profili, di presentazioni, di curricula. Ripassavamo il copione in ascensore o nei cessi delle sale d’aspetto e quando non ci davano ragione, andavamo a prenderla. E se non trovavamo motivi, uscivamo a comprarne. Odiavamo i retrobottega. Ci tappavamo il naso per essere alla mano bazzicando gli ultimi perché ci facevano sentire primi, ma guai se questi provavano a competere. Parlavamo in faccia, ma senza gettare la maschera.
Aspettavamo il tempo all’incrocio dell’eternità e quando la nostra ora forzava l’assedio, gli sparavamo contro fino a stenderla. Correvamo così forte dietro alla vita da lasciarcela alle spalle, mostrandogli il culo per sberleffo.
Lentamente mi stancai. Non capivo più il senso della commedia. Avevo dedicato a quella merda troppo tempo e covato tanto rancore. Pianificavo, consideravo le varianti e ponderavo ogni passo. Disarmonico. Saltando le battute. Eternamente fuori tempo.
Mi accontentai di scendere a una fermata qualunque, senza sapere cosa sarebbe stato. Li lasciai tutti giocare agli irresistibili, si sarebbero dimenticati di me e io avrei smesso di considerarli. Le mie energie prendevano un’altra direzione e non ebbi più alcun bruciore di stomaco. Era la differenza tra mandare la gente a cacare e, semplicemente, lasciarla andare.