Il gruppo di lavoro, di “tecnici” pentastellati e leghisti, impegnato nel febbrile lavorio di condividere il contratto di governo è apparso come un insieme mal assortito di studentelli alle prese con i compiti delle vacanze.

Non ho ben compreso se i due capiclasse, Di Maio e Salvini, teleguidassero a distanza i lavori del gruppo o se, invece, gareggiassero tra loro solo per il predominio nello scegliere i ministri e nel rastrellare il maggior numero di poltrone.

Non meno indecifrabile la vicenda della leadership che, di ora in ora, ha dondolato tra la scelta di un soggetto terzo o quella del politico di una delle due formazioni, ovviamente gradito a tutti.

Se questa, con le sue complesse sfaccettature, è la piattaforma propedeutica al debutto del cosiddetto governo del cambiamento, spero di sbagliarmi ma ho la sensazione che presto, molto presto torneremo alle urne.

Innanzitutto perché mi sembra che Di Maio e Salvini siano troppo sicuri che, dopo aver copiato in bella il loro compitino, lo possano sottoporre al Capo dello Stato perché corregga solo eventuali errori di ortografia ma non quelli di sintassi.

Se così fosse i due capiclasse si sarebbero indaffarati per giorni, in incontri e scontri, ignorando le prerogative che la Carta attribuisce al Capo dello Stato.

Ad esempio, l’art. 92 della Costituzione non concede margini a bizzarre interpretazioni quando recita: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”.

Ora, anche se il presidente Mattarella è persona saggia e molto pacata, ed in queste settimane ha dimostrato di essere anche molto paziente, qualora Di Maio e Salvini si presentassero a lui con il nome di un premier già deciso e con una lista preconfezionata di ministri, forse lo irriterebbero al punto da indurlo a mandare a carte quarantotto la ipotesi di governo.

Il rischio, peraltro, non è solo che il progetto di un governo gialloverde non veda neppure la luce ma che, una volta nato possa entrare in crisi nel giro di qualche settimana per almeno due motivi.

Il primo motivo può annidarsi nelle stesse pieghe del contratto di governo.

Per quanto, infatti, possa essere stata accurata ed approfondita la disamina dei diversi capitoli del contratto, nel passaggio alla fase attuativa è prevedibile che possano nascere divergenze interpretative tali da creare contrasti nel consiglio dei ministri, ancora più difficili da dirimere se, come sembra, Di Maio e Salvini dovessero essere presenti come ministri.

Il secondo motivo è intrinseco nella stessa attività dell’esecutivo.

Giorno dopo giorno è inevitabile che sulla scrivania di ogni ministro si ritrovino da fronteggiare moltissimi temi non previsti, condivisi ed inclusi nel contratto di governo.

Decine e decine di temi che comunque comporteranno scelte politiche, spesso anche interministeriali.

In un governo a doppio comando non sarà facile conciliare orientamenti politici disomogenei per arrivare a decisioni condivise.

Cosa potrà accadere nei casi in cui non si giungesse ad una condivisione?

A chi competerebbe il ruolo di arbitro unico ed insindacabile?

Se a queste due domande il contratto di governo non prevedesse fin d’ora risposte puntuali e rigorose la litigiosità accompagnerà l’esecutivo nella sua attività con effetti devastanti sull’efficacia dell’azione governativa, e la barca gialloverde naufragherà sugli scogli.