In Italia si lavora di più, si guadagna di meno e si va in pensione più tardi rispetto al resto d’Europa.
Non è un paradosso, ma la fotografia drammatica di un Paese che da anni vede peggiorare le condizioni materiali di milioni di lavoratori, sempre più spesso precari, sottopagati e privi di prospettive. L’emergenza stipendi è ormai strutturale, non più episodica, e richiede risposte nette, coraggiose, immediate.

I dati parlano chiaro: i salari reali in Italia sono fermi da oltre vent’anni. Secondo l’OCSE, siamo l’unico Paese europeo in cui la retribuzione media annuale è diminuita rispetto al 1990. Una realtà che stride con l’aumento del costo della vita, della pressione fiscale e della produttività. Come se non bastasse, i lavoratori italiani vanno in pensione più tardi rispetto ai loro colleghi europei e, spesso, in condizioni peggiori: con assegni bassi e una sanità pubblica in affanno.

È una questione che riguarda milioni di persone ogni giorno, in silenzio. Una questione che entra nelle nostre case, nei bilanci familiari, nei pensieri della sera prima di dormire. Parliamo dell’emergenza stipendi in Italia. Un’emergenza reale, concreta, non teorica.

Siamo il Paese europeo in cui i salari sono cresciuti meno negli ultimi trent’anni. Anzi, in termini reali, sono scesi. Non è una sensazione: è un dato. Nel frattempo, il costo della vita aumenta, le bollette rincarano, gli affitti impazziscono e i servizi pubblici – dalla sanità ai trasporti – arretrano.

A tutto questo si aggiunge un altro dato inquietante: in Italia si va in pensione più tardi rispetto al resto d’Europa. Lavoriamo di più, guadagniamo di meno e abbiamo meno tutele. Una situazione che non può essere considerata normale né accettabile.

Il governo tace sul tema delle pensioni, altro cavallo di battaglia in campagna elettorale, ma ha parlato di “salario adeguato”, una proposta alternativa al salario minimo legale da 9 euro l’ora avanzata dalle opposizioni, pensata per rafforzare la contrattazione collettiva. Le retribuzioni dovrebbero essere almeno pari a quelle previste dai contratti firmati dai sindacati più rappresentativi.

In teoria, una buona idea. Ma il progetto è stato bloccato perché rischiava di legittimare anche contratti collettivi con tutele inferiori, firmati da sigle compiacenti, che non garantiscono né diritti né dignità. I sindacati, compresa la CISL – tradizionalmente più dialogante con l’esecutivo – temono infatti un arretramento dei diritti storicamente acquisiti.

Il governo, però, vuole rilanciare la proposta con alcune modifiche, per non lasciare il tema nelle mani della sola opposizione.

Nel frattempo, i salari reali restano sotto i livelli del 2021 e cresce la pressione per interventi urgenti a tutela del potere d’acquisto dei lavoratori.

E allora chiediamocelo chiaramente: è accettabile che nel 2025 ci siano ancora lavoratori con stipendi da 4, 5 o 6 euro l’ora? È giusto che un giovane laureato o una donna con figli debba scegliere tra un lavoro sottopagato o nessun lavoro? È davvero questa l’Italia che vogliamo?

Il lavoro deve tornare a essere centrale, dignitoso, giustamente remunerato. Non solo perché lo impone la Costituzione, ma perché senza salari equi non c’è futuro, non c’è sviluppo, non c’è coesione sociale.

Serve una svolta. Serve un salario minimo legale valido per tutti, sotto il quale nessuno possa scendere. Serve una lotta vera ai contratti pirata. Serve un fisco che premi il lavoro dipendente e non lo penalizzi. E serve il coraggio, da parte della politica, di ascoltare chi lavora, non solo chi comanda.

Il nostro Paese non può più permettersi di ignorare questa emergenza. Non possiamo più perdere tempo in giochi di equilibrio tra partiti. Non si tratta di destra o di sinistra: si tratta di giustizia.

Perché una cosa deve essere chiara, oggi più che mai: se chi lavora resta povero, è lo Stato ad aver fallito.

La verità è che serve un cambio di paradigma. Un nuovo patto sociale, fondato sul rispetto del lavoro, sul rafforzamento dei contratti collettivi seri e rappresentativi, su un salario minimo legale che faccia da rete di protezione e su politiche fiscali e previdenziali più eque.

Non si può continuare a chiedere sacrifici ai cittadini mentre il divario tra chi ha troppo e chi ha troppo poco si allarga ogni giorno di più.

In gioco non c’è soltanto la dignità dei lavoratori, ma la tenuta stessa della nostra democrazia. Perché una società in cui chi lavora resta povero è una società ingiusta. E profondamente instabile.