La recente decisione della Corte d’Appello di Roma di non convalidare i trattenimenti dei 43 migranti trasferiti in Albania segna un nuovo punto di rottura tra poteri dello Stato e rappresenta un ulteriore colpo alla strategia del governo italiano in materia di gestione dei flussi migratori. Questo episodio si inserisce in un quadro già compromesso da tensioni istituzionali, evidenziando una crescente frattura tra esecutivo, magistratura e opposizione. Tuttavia, al di là delle battaglie politiche e delle contrapposizioni ideologiche, la vera sconfitta è rappresentata dall’incapacità di elaborare soluzioni concrete ed efficaci per affrontare un fenomeno complesso e strutturale.
L’accordo Italia-Albania, presentato con grande enfasi dal governo come una soluzione innovativa, ha mostrato da subito numerose criticità, sia dal punto di vista pratico che giuridico. La magistratura ha sollevato dubbi legittimi sulla sua compatibilità con il diritto italiano e internazionale, in particolare con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo non può essere liquidato come un semplice ostacolo burocratico o un atto di sabotaggio nei confronti dell’esecutivo, ma deve essere interpretato come un monito sulla necessità di rispettare le norme e i principi fondamentali dello Stato di diritto.
Tuttavia, la gestione del fenomeno migratorio non può ridursi ad una lotta tra istituzioni. Il conflitto tra governo e magistratura rischia di alimentare un clima di perenne instabilità, con effetti negativi sulla credibilità delle politiche migratorie italiane. La narrazione politica si è ormai cristallizzata in uno schema prevedibile: il governo accusa la magistratura di frapporre ostacoli alla sua azione, mentre l’opposizione denuncia la presunta illegalità delle misure adottate dall’esecutivo. Il risultato è un dibattito sterile, in cui la questione centrale – ovvero come gestire in modo efficace e umano i flussi migratori – viene relegata in secondo piano.
Questa impasse politica ha conseguenze dirette sulla percezione dei cittadini, sempre più sfiduciati e distanti dalle istituzioni. Il crescente astensionismo elettorale, che ha superato la soglia del 50%, ne è una prova evidente. Gli italiani assistono ad un continuo scontro tra poteri dello Stato senza vedere risposte concrete alle emergenze del Paese. Il rischio è quello di alimentare una spirale di indignazione e disaffezione, che può minare ulteriormente la tenuta democratica del sistema.
La gestione dell’immigrazione non può basarsi su mosse simboliche o soluzioni dettate dall’emergenza del momento. Serve un approccio pragmatico, basato su una programmazione di lungo periodo e su una cooperazione effettiva tra le diverse istituzioni. Il governo ha il dovere di proporre strategie sostenibili, rispettando i vincoli giuridici e i principi costituzionali. L’opposizione, dal canto suo, dovrebbe superare la mera critica e avanzare proposte credibili e praticabili. La magistratura, infine, deve continuare a garantire il rispetto della legalità, senza però essere trascinata in dinamiche politiche che ne compromettono l’autonomia e l’autorevolezza.
È necessario un cambio di rotta. La politica italiana deve abbandonare la logica dello scontro permanente e riscoprire il valore del dialogo istituzionale. Solo attraverso un confronto costruttivo e una visione a lungo termine sarà possibile affrontare in modo efficace le sfide poste non solo dalla gestione dei flussi migratori, ma da tutte le altre e altrettanto gravi problematiche che affliggono il paese e i suoi cittadini, dalla sanità alla sicurezza, dalla scuola ai trasporti, dai salari alle pensioni, ecc, ecc.
Continuare a scontrarsi senza mai trovare un punto d’incontro, continuare a perseverare negli stessi errori, senza correggere il tiro, significa condannare il Paese ad un’impasse senza uscita. E, come recita un noto adagio, errare è umano, ma perseverare nell’errore è diabolico.