Martedì, a Khan Younis, nella Striscia di Gaza, i carri armati dello Stato ebraico hanno aperto il fuoco su migliaia di civili palestinesi disperati che si erano radunati nella speranza di ricevere degli aiuti umanitari. Il bilancio è agghiacciante: almeno 60 morti e oltre 200 feriti, secondo fonti mediche locali. Un massacro a sangue freddo.

Uomini, donne, bambini — tutti ammassati nella speranza di ottenere un po' di cibo. Invece si sono ritrovati sotto i colpi di proiettili sparati da carri armati. Perché? Perché erano troppi? Perché avevano fame? Perché sono palestinesi?

I testimoni raccontano che i soldati israeliani hanno prima lasciato avvicinare la folla… poi hanno iniziato a sparare. Due colpi di cannone di un carro armato sparati contro civili disarmati. I corpi mutilati giacevano in mezzo alla strada. Alcuni sono stati trasportati in ospedale su carretti trainati da asini, per mancanza di ambulanze.

E l'unica risposta ufficiale è stata il solito comunicato freddo e cinico dell’IDF, che "si rammarica" per l'accaduto su cui "sta indagando". Nel frattempo la carneficina continua, giorno dopo giorno.

Le forze israeliane hanno aperto il fuoco anche sulle persone in cerca di assistenza alimentare vicino alla zona di al-Akwa a ovest di Rafah,

E tutto questo mentre Israele pretende di gestire "in sicurezza" gli aiuti, impedendo l'accesso diretto a organizzazioni neutrali come l'ONU, che definisce il sistema attuale inadatto, pericoloso e contrario al diritto umanitario.

Questo non è un incidente. È un metodo. È un sistema terroristico.
Uccidere chi cerca di sfamare i propri figli è un crimine, punto.
Non ci sono "danni collaterali". Non c'è giustificazione.
È barbarie. È apartheid. È disumanizzazione... è GENOCIDIO.

E mentre centinaia di civili muoiono nel tentativo di afferrare una razione di cibo, qualcuno ha il coraggio di parlare ancora di "difesa", di "autodeterminazione", di "diritto a esistere" da parte di Israele.

Chi uccide affamati non si sta difendendo. Sta sterminando un popolo.
E chi guarda in silenzio, senza denunciare e senza indignarsi per tali crimini, ne è complice.



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