La proposta di una settimana lavorativa di quattro giorni, due dei quali in presenza e due in smart working, è stata presentata come una conquista per i lavoratori. In realtà, dietro questa apparente innovazione si nasconde un ulteriore stratagemma per precarizzare il lavoro e abbassare ulteriormente il potere d’acquisto dei lavoratori italiani, già tra i meno pagati d’Europa.
L’idea di lavorare un giorno in meno può sembrare allettante, ma la realtà è ben diversa. Se gli stipendi restano invariati e il costo della vita continua a salire, la settimana corta si traduce in una mera illusione di benessere. Non si tratta di un miglioramento reale delle condizioni lavorative, bensì di un palliativo per mascherare il declino delle retribuzioni e il costante deterioramento dei diritti dei lavoratori.
L’Italia è già in fondo alla classifica europea per salari medi: secondo i dati OCSE, un lavoratore italiano guadagna molto meno rispetto ai colleghi di Francia, Germania e perfino Spagna. La riduzione della settimana lavorativa, per baipassare un aumento delle retribuzioni, non è altro che un’operazione di facciata per evitare di affrontare il problema reale: la necessità di stipendi dignitosi e adeguati al costo della vita.
L’introduzione massiccia dello smart working potrebbe sembrare un’opportunità di conciliazione tra vita lavorativa e personale, ma in molti casi si trasforma in una trappola. I costi delle bollette, della connessione internet e dell’attrezzatura, ricadono interamente sulle spalle del lavoratore, mentre le aziende risparmiano su affitti, utenze e straordinari. Non a caso, le grandi imprese spingono per mantenere il telelavoro: non per il benessere dei dipendenti, ma per ridurre i propri costi operativi.
Inoltre, il lavoro da casa spesso sfocia in una disponibilità h24, senza limiti precisi tra orario lavorativo e vita privata. Il risultato? Un aumento dello stress e della precarietà, mentre le aziende si fregano le mani per aver trovato un modo elegante per far lavorare di più i propri dipendenti senza pagarli adeguatamente.
Se il tema degli stipendi è già critico, quello delle pensioni assume toni ancora più drammatici. L’età pensionabile continua ad aumentare, avvicinandosi inesorabilmente ai 70 anni. In un contesto in cui le prospettive di carriera sono sempre più incerte e i giovani fanno fatica ad entrare nel mondo del lavoro, questa politica appare come una condanna a lavorare fino allo sfinimento.
Chi riuscirà a mantenere un impiego fino a quell’età? Con l’erosione dei diritti, la diffusione del precariato e il progressivo smantellamento delle tutele sociali, il rischio concreto è che milioni di lavoratori si trovino a dover lavorare ben oltre i limiti della sopportazione, senza nemmeno la garanzia di una pensione decente.
La settimana corta e lo smart working non sono un passo avanti se non sono accompagnati da aumenti salariali concreti e da una vera protezione sociale, ma due passi indietro!
Il problema non è quante ore si lavora, ma come si lavora e quanto si viene pagati.
Se vogliamo davvero migliorare la condizione dei lavoratori, dobbiamo lottare per stipendi equi, una riduzione reale dell’orario lavorativo senza tagli nascosti e un sistema pensionistico che garantisca dignità a chi ha contribuito per decenni allo sviluppo del paese.
Altrimenti, la settimana corta sarà solo l’ennesima illusione creata ad arte per farci accettare la precarietà come nuova normalità.