Slow Food ha appena pubblicato un nuovo dossier che mette a nudo una delle ipocrisie più evidenti (e gravi) dell’attuale sistema agroalimentare europeo: le clausole specchio e i doppi standard che regolano – o meglio, non regolano – l’importazione di prodotti agricoli da Paesi extra UE, in particolare mais e grano.

Il focus del documento è chiaro: l’Unione Europea continua ad accogliere milioni di tonnellate di cereali coltivati secondo pratiche che in Europa sarebbero illegali. Non è una svista, né una casualità. È il frutto di regole volutamente sbilanciate, che permettono l’ingresso di alimenti trattati con pesticidi e diserbanti vietati nei confini comunitari, aggirando di fatto i principi di tutela ambientale e sanitaria che l’UE si vanta di applicare ai propri produttori.


I numeri dell’ipocrisia

Parliamo di cifre enormi. Ogni anno l’Europa importa circa:

  • 15 milioni di tonnellate di mais, soprattutto da Ucraina, Brasile, Argentina e Stati Uniti;
  • 8 milioni di tonnellate di grano tenero, in gran parte da Stati Uniti, Canada, Australia, Ucraina e Russia;
  • 1,7 milioni di tonnellate di grano duro, nel solo 2024.

Dietro questi numeri ci sono monocolture intensive, su scala industriale, trattate massicciamente con sostanze chimiche vietate in UE. Il paradosso? Molti di questi pesticidi sono prodotti in Europa, venduti a Paesi terzi e poi tornano indietro sotto forma di alimenti importati.


Il problema non sono solo i residui
C’è chi si aggrappa alla soglia dei cosiddetti LMR (limiti massimi di residui), sostenendo che i prodotti importati siano “a norma”. Ma è una difesa debole, se non del tutto fuorviante. Nella coltivazione di cereali, infatti, i diserbanti si usano in pre-emergenza, cioè prima o durante la semina, quindi è raro che restino tracce nel prodotto finito. Questo non significa che non facciano danni.

Anzi, i veri impatti sono ambientali e sistemici: contaminazione delle acque, distruzione dei suoli, perdita di biodiversità, esposizione cronica degli agricoltori e delle comunità locali a sostanze tossiche. Le coltivazioni trattate con questi metodi inquinano, consumano risorse, minano la salute pubblica. Ma tanto il danno è fatto lontano dagli occhi dell’elettore europeo.


Clausole specchio: una questione di giustizia
Slow Food lancia un appello semplice e legittimo: le stesse regole devono valere per tutti, dentro e fuori l’Unione. Oggi così non è, e il risultato è una concorrenza sleale che danneggia i produttori europei – costretti a rispettare norme molto più rigide – e che premia chi produce a basso costo fregandosene della salute e dell’ambiente.

Ma la questione non si esaurisce con la protezione del mercato interno. C’è un altro punto, ancora più urgente: la responsabilità verso le popolazioni dei Paesi terzi. Continuare ad importare cereali coltivati con sostanze tossiche significa legittimare modelli agricoli predatori, imposti da colossi agroindustriali che antepongono il profitto al benessere umano e ambientale. È una forma di colonialismo moderno, dove il cibo è solo un vettore di dominio economico.


Un cambio di rotta è necessario
L'Europa ha una scelta davanti: continuare a chiudere un occhio in nome della “libertà di mercato”, oppure prendere una posizione coerente con i propri valori dichiarati. Se si vuole davvero tutelare la salute dei cittadini, la sostenibilità dell’agricoltura e la giustizia sociale, non si può più ignorare il tema delle clausole specchio.

È tempo che l’Unione smetta di predicare bene e razzolare male. E che il principio del rispetto delle regole valga per tutti, senza eccezioni e senza ipocrisie.



Per scaricare il dossier:
www.slowfood.it/wp-content/uploads/2025/07/IT_Mirror_breve_2025.pdf