Il calcio è un gioco. Chi lo pratica a certi livelli acquista, volente o meno, visibilità e di conseguenza tutto ciò che fa, gioco forza, finisce per avere un significato politico, visto che oramai è accertato da più di 2mila anni che l'uomo è un "animale politico". Ovvio che il significato politico di un'azione cambia in base all'importanza dell'argomento trattato.

Fatta la premessa, veniamo al punto. La corte Suprema spagnola ha condannato fino a 13 anni di carcere i dissidenti catalani che, senza ricorrere alla violenza ma solo a una diversa interpretazione di principi giuridici avevano proclamato l'indipendenza della Catalogna.

L'allenatore del Manchester City, Pep Guardiola, catalano, ha espresso per tale fatto tutta la sua indignazione in un video.


Che cosa ha detto Guardiola? Che "la Spagna sta vivendo una deriva autoritaria sotto la quale si utilizzano le leggi contro il terrorismo per criminalizzare il dissenso e reprimere coloro che esercitano la propria libertà di espressione.

I leader condannati oggi rappresentano i partiti di maggioranza e le più importanti entità della società civile catalana. Né il governo di Pedro Sanchez, né altri governi spagnoli hanno avuto il coraggio di risolvere questo conflitto attraverso il dialogo e il rispetto. Piuttosto, hanno optato per la repressione come unica forma di risposta.
L'indipendentismo è un movimento trasversale e di base, inclusivo e con una lunga storia basata sulla voglia di autogoverno dei catalani. Non è né xenofobo, né egoista: è un movimento che trova la sua forza nel riconoscimento del pluralismo e della diversità.

Questa lotta non violenta non si arresterà finché non terminerà la repressione e si rispetterà il diritto all'autodeterminazione, come si è fatto in Quebec o in Scozia. Pretendiamo dal governo spagnolo una soluzione politica e democratica".

Comunque la si pensi, Guardiola ha espresso la sua protesta e la sua indignazione per un fatto che ritiene ingiusto, in modo democratico, civile e rispettoso, approfittando  della visibilità garantitagli dal suo ruolo, oltretutto fuori dal campo, senza confondere l'impegno civile con la sua attività di allenatore, rispettando il club di appartenenza e i suoi giocatori.


Adesso, prendiamo un altro esempio, quello dei giocatori della nazionale turca che nei due impegni della loro nazionale hanno pensato bene, comportandosi da esaltati, di schierarsi a favore dell'invasione turca del nord della Siria, un'operazione offensiva che colpisce indiscriminatamente una minoranza e che ha tutte le caratteristiche di un'operazione di pulizia etnica contro il popolo curdo.

Che cosa hanno fatto? Nelle due sfide per le qualificazioni agli Europei del 2020 che opponevano la Turchia all'Albania e alla Francia, i calciatori turchi si sono messi sull'attenti incitando i propri tifosi a fare altrettanto. Alcuni di loro militano anche in squadre italiane.


Uno di questi è il milanista Calhanoglu che ha spiegato così il gesto da lui compiuto insieme ai suoi compagni: "Io gioco per la mia nazionale e come tutti voglio il massimo, ma la politica è un'altra cosa. Noi siamo giocatori, siamo qui per giocare. Siamo con la nostra nazione al 100%, anche nelle difficoltà".

È evidente che Calhanoglu non è molto intelligente e preparato, perché la politica non è un'altra cosa. E proprio perché con quel gesto la nazionale turca ha voluto dare un significato politico alle partite che disputa, è allora anche automatico che Uefa e Fifa prendano dei provvedimenti in merito, ad esempio impedendo alla nazionale turca di partecipare ai prossimi europei di calcio, a meno che le manifestazioni di calcio non siano da considerarsi, da oggi uno strumento di propaganda per promuovere la violenza e la guerra.