Nei primi 100 giorni del suo secondo mandato, Donald Trump ha dato via libera a un repentino capovolgimento dell'ordine mondiale costruito da Washington dopo la Seconda Guerra Mondiale. Con misure che vanno da una guerra tariffaria globale senza precedenti alla riduzione drastica degli aiuti esteri, il presidente americano ha lanciato segnali di rottura con alleati storici e ha aperto spiragli di dialogo perfino con la Russia di Vladimir Putin.

Trump ha sferrato un attacco frontale al libero scambio: nuove tariffe punitive su decine di Paesi, accusati di danneggiare gli Stati Uniti, hanno raffreddato i mercati, indebolito il dollaro e messo a rischio la crescita globale. Se da un lato l'amministrazione definisce i dazi come una medicina necessaria per proteggere i lavoratori americani, dall'altro permane l'incertezza sugli obiettivi finali di questa strategia, percepita più come uno strumento di pressione che come parte di un progetto economico coerente.

Il disprezzo esplicito nei confronti della NATO e degli alleati europei — definita dall'inquilino della Casa Bianca come un club dove gli Stati Uniti pagano e gli altri ne traggono vantaggio — ha generato nervosismo a Bruxelles e a Berlino. La Germania, da tempo dipendente da armi e tecnologia USA, ora valuta di rafforzare le proprie capacità difensive nazionali. Il cancelliere Friedrich Merz non ha nascosto il timore che lo slogan “America First” possa tradursi in un isolamento degli Stati Uniti, minando pericolosamente la sicurezza collettiva del Vecchio Continente.

In netto contrasto con il sostegno incondizionato delle amministrazioni precedenti a Kiev, Trump ha trattato la guerra in Ucraina come materia di baratto diplomatico. Ha ripreso a inchinarsi alla narrativa russa sull'invasione, mettendo in discussione il flusso degli aiuti militari e aprendo la possibilità di concessioni territoriali a favore di Mosca. Un approccio che ha gelato Zelensky e fatto tremare i vertici NATO, preoccupati che l'America rinunci al suo ruolo di baluardo contro l'espansionismo di Putin.

Mai prima d'ora un presidente statunitense aveva parlato — anche soltanto a livello ipotetico — di annessione della Groenlandia, riconquista del Canale di Panama o trasformazione del Canada nel 51° Stato USA. Se molti analisti ritengono queste provocazioni mere esagerazioni tattiche, alcuni governi le prendono sul serio: la premier danese Mette Frederiksen ha reclamato garanzie sull'integrità territoriale della Groenlandia, perché "quando le minacce arrivano dall'alleato più stretto, si incrina la fiducia costruita in generazioni".

Diversi partner atlantici stanno già riallineando le proprie strategie economiche: l'Unione Europea ha preparato tariffe di ritorsione e Paesi come Spagna e Francia stanno dialogando apertamente con Pechino. In Corea del Sud, le minacce di ritiro delle truppe USA hanno riacceso il dibattito su un programma nucleare autonomo, mentre il Giappone valuta contromisure industriali per non restare ostaggio delle politiche commerciali di Washington.

Il rovesciamento di certezze a livello globale è palpabile: anche se Trump dovesse mitigare i toni e tornare sui suoi passi, molti governi hanno già iniziato a costruire muri di protezione contro le sue politiche imprevedibili. Se nel 2028 un successore più tradizionale tentasse di riparare i danni, la strada sarebbe in salita: la fiducia si conquista con gesti e coerenza, non con tweet incendiari e trattative lampo.

In gioco non c'è soltanto l'egemonia degli Stati Uniti, ma l'intero equilibrio di un sistema internazionale basato sul libero scambio, sullo stato di diritto e sul rispetto delle frontiere. Alla fine dei 100 giorni di Trump 2.0, emerge un quadro di enorme disorientamento: amici e avversari stanno già ridefinendo alleanze e strategie, in un mondo che potrebbe non tornare più com'era prima.