Nell'incontro con i partecipanti alla riunione del "Comitato Permanente per il Dialogo con personalità religiose della Palestina" di questo mercoledì, Papa Francesco aveva mostrato quella cautela nel porre sul tavolo i problemi che aveva spiegato, e in parte giustificato, durante la conferenza stampa tenuta sull'aereo che dal Bangladesh lo riportava a Roma. Una cautela da interpretare come invito al dialogo e al confronto.

In quel contesto, il Papa ha preferito porre l'accento sulle tematiche religiose che, tra le altre, caratterizzano la Palestina, tralasciando quelle politiche.

Un'occasione mancata, da parte di Francesco, per non esprimere il proprio parere sulla decisione di Trump di spostare l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme? Non è così, perché sull'attuale situazione che si è venuta a creare e resa pubblica nelle ultime ore, il Papa ha espresso la propria preoccupazione alla fine della consueta udienza del mercoledì con il seguente appello.

«Il mio pensiero va ora a Gerusalemme. Al riguardo, non posso tacere la mia profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni e, nello stesso tempo, rivolgere un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite.

Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, ed ha una vocazione speciale alla pace.

Prego il Signore che tale identità sia preservata e rafforzata a beneficio della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero e che prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti.»



Questa volta, però, Bergoglio non ha usato "voli pindarici" per indicare il problema e le possibili conseguenze che, sia sul piano locale che su quello internazionale, potrebbero causare. Parole chiare che riflettono, probabilmente, la preoccupazione espressa al Pontefice dallo stesso Abu Mazen in un colloquio telefonico, confermato dal portavoce della Santa Sede Greg Burke, che ha specificato che è stato lo stesso Abu Mazen a chiamare.

In Israele le posizioni non sono univoche. Da un parte ci sono quelle critiche riassunte in un fondo del quotidiano Haaretz, che indica in Netanyahu il responsabile delle violenze e del sangue che seguirà alla decisione di Trump. Dall'altra, la destra israeliana esulta, salutando come storica la decisione di Trump.

Anche le reazioni delle comunità cristiane presenti in Palestina sono state di condanna. L’arcivescovo Teodosio (Hanna Atallah) del Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme, alla radio Voice of Palestine, ha definito la decisione di Trump come «una provocazione al mondo arabo e una violazione dei diritti religiosi e nazionali del popolo palestinese che non potrà non avere conseguenze. Chi ama la Palestina e Gerusalemme, chi vuole difendere i suoi luoghi santi cristiani e musulmani, deve lavorare per serrare i ranghi e stare insieme in una sola trincea.»

Mitri Raheb, presidente dell’università cristiana Dar al-Khalima di Betlemme, intervistato dal SIR, ha dichiarato che la scelta di Trump è «il bacio della morte della morte al cosiddetto processo di pace. Apre un nuovo capitolo che nessuno sa dove condurrà. Sviluppi pericolosi potrebbero coinvolgere tutta la regione.»

Naturalmente, da parte palestinese, sono già state anticipate reazioni di protesta, con tre giorni "collera" in cui il popolo palestinese in Israele e nel mondo è stato invitato a raccogliersi nei centri delle città e di fronte alle ambasciate e consolati israeliani con lo scopo di far conoscere la rabbia della gente. Ed a questo si deve aggiungere il pericolo, molto concreto, che venga annunciata una nuova intifada.