In un momento storico in cui la fiducia dei cittadini nelle istituzioni vive un evidente affanno, lo scontro tra governo e magistratura rischia di indebolire ulteriormente le fondamenta del nostro Stato di diritto. Le recenti tensioni sollevate dalle valutazioni tecniche della Corte di Cassazione sul decreto Sicurezza e sul protocollo Italia-Albania per la gestione dei migranti, cui ha fatto seguito una reazione critica da parte di alcuni esponenti del governo, pongono interrogativi profondi sul rapporto tra i poteri dello Stato e sulla necessaria sinergia che dovrebbe animarli.
Le parole della prima presidente della Cassazione, sono un invito chiaro alla riflessione e al recupero di un dialogo costruttivo. Nessuna invasione di campo, nessun tentativo di ostacolare l’azione politica, ma l’esercizio di un compito istituzionale che, da oltre vent’anni, l’ufficio del Massimario della Corte svolge con rigore e metodo. Le sue analisi, di natura tecnico-scientifica, non dettano verità assolute né condizionano l’autonomia dei giudici, ma offrono strumenti per comprendere meglio la portata delle nuove norme. È, questa, una funzione essenziale in ogni democrazia matura.
Ecco allora che la dialettica tra poteri, se intesa come confronto serio e responsabile, può e deve diventare una risorsa. La democrazia si nutre del pluralismo delle opinioni, del rispetto reciproco e del riconoscimento delle diverse funzioni istituzionali. Al contrario, la continua contrapposizione, la delegittimazione reciproca, la tentazione di ridurre il confronto tecnico a polemica ideologica, rischiano di minare l’intero equilibrio costituzionale.
Non è in discussione l’autonomia della politica né la sua legittimità a scegliere i percorsi legislativi che ritiene più opportuni. Ma è altrettanto vero che ogni decisione normativa deve misurarsi con la complessità dell’ordinamento, con il principio di proporzionalità, con la coerenza del sistema sanzionatorio e, più in generale, con il rispetto dei diritti fondamentali. Quando la magistratura, attraverso le sue articolazioni più alte, solleva rilievi tecnici su una legge, non fa politica: esercita un ruolo di garanzia e controllo che la Costituzione le attribuisce.
La vera forza di uno Stato democratico non si misura nella rigidità con cui i poteri si fronteggiano, ma nella capacità di cooperare, pur nella distinzione dei ruoli. Governo, Parlamento, Magistratura e Presidenza della Repubblica non sono entità isolate, né tantomeno contendenti in una lotta di potere. Sono parti di un’unica architettura istituzionale, chiamate - ciascuna con le proprie prerogative - a concorrere alla realizzazione del bene comune.
Le tensioni tra potere giudiziario ed esecutivo non giovano, certo, a far recuperare la fiducia nello Stato. Una considerazione che dovrebbe far riflettere tutti: chi amministra, chi giudica, chi rappresenta, chi legifera, chi governa, chi controlla. Perché ogni volta che si rompe il filo del rispetto tra i poteri dello Stato, si rompe anche un pezzo del legame tra cittadini e istituzioni.
La storia repubblicana ci ha insegnato che i momenti più fecondi sono quelli in cui le istituzioni riescono a parlarsi, a trovare sintesi, a costruire insieme. Non si tratta di rinunciare alla critica - anzi, questa è linfa vitale - ma di incanalarla nel rispetto delle funzioni altrui, nella consapevolezza che nessun potere può bastare a se stesso.
Lo Stato, nella sua complessità, è come un'orchestra. Ogni strumento ha la sua voce, il suo timbro, il suo compito. Ma solo se suona in armonia con gli altri produce musica. In caso contrario, non resta che il rumore. E il rumore, oggi più che mai, è l’ultima cosa di cui ha bisogno il nostro Paese.